martedì 11 marzo 2014

UN DESTINO SALVIFICO

UN DESTINO SALVIFICO PER TUTTI: UN PENSIERO SANO (9.12.2013)

 L’editoriale (e la copertina) del numero natalizio della rivista di Caritas Ticino che esce in questi giorni.


UN DESTINO SALVIFICO PER TUTTI: UN PENSIERO SANO

Buon Natale ai nostri lettori e a chi ci segue per via elettronica con la natività di Egon Shiele.
Una copertina natalizia inusuale e poco conosciuta. Si sa poco comunque di questo quadro, per me stupendo, su cui posso persino permettermi di pensare cose azzardate visto che non sono molti i critici autorevoli che ne hanno parlato. Oso quindi l’accostamento con la trinità di Rubliev col triangolo dei tre personaggi, la prospettiva rovesciata e il calice centrale. Qui il personaggio più enigmatico è Gesù infante, forse già nato o forse ancora nel grembo della madre, già e non ancora, che gioca con le mani, sfumate all’interno del probabile sacco amniotico, mentre le mani degli adulti si intrecciano proteggendolo, nel rimando circolare che mi sembra costruisca il triangolo dell’accoglienza della nuova vita e della vita in generale, salvata da quel personaggio centrale disegnato in oro come nelle icone bizantine.
Tratto graffiante che mi interroga su quella nascita all’origine della tradizione cristiana che, se svuotata dall’inutile sentimentalismo di cui è stata caricata, diventa paradigma del destino buono e salvifico che si pone in termini dialettici con tutta l’umanità. Penso per analogia alla carica dirompente di certi personaggi religiosi descritti da artisti non credenti che, con straordinaria onestà intellettuale, si sono posti in ascolto con un atteggiamento interrogativo; l’urlo di San Francesco della Cavani ad esempio. Un Natale che pone in nuce l’ipotesi del destino salvifico per tutti, l’ipotesi esistenziale dell’eternità, come pensiero straordinariamente affascinante fondato sulla sovrabbondanza, contrapposta alla visione maggioritaria fondata sulla penuria. Un pensiero intelligente perciò sano. Fuori dal coro.
Ho incrociato Hanna Arendt, giornalista ebrea (1906-1975) attraverso il film di Margarethe von Trotta dell’anno scorso. Ciò che mi ha colpito della sua vicenda raccontata nel film, è l’impossibilità di metabolizzare un pensiero originale quando questo esce dagli schemi in cui si è codificato il range delle variazioni ammissibili. Come dire che oltre un certo limite non si possono neppure contemplare pensieri originali diversi dal pensiero dominante. Il mondo ebraico ha stigmatizzato la Arendt perché, seguendo il processo del nazista Alfred Eichmann e scrivendone sul New Yorker, osò sviluppare la seguente teoria che tento di sintetizzare: la difesa di Eichmann e dei capi nazisti in generale, secondo cui hanno obbedito a ordini superiori, introduce un pensiero generale pericolosissimo in quanto nega la possibilità di pensare. Ma quando non si può pensare è impossibile anche un pensiero morale, quindi chiunque, cioè una persona normalissima, può diventare l’artefice dei crimini più efferati contro l’umanità senza essere responsabile di nulla. La Arendt è stata accusata di cercare di assolvere Eichmann e ne ha viste di tutti i colori a cominciare dai suoi amici più intimi che pensavano avesse tradito i 6 milioni di Ebrei sterminati dai nazisti.
Si trattava ovviamente di intellettuali intelligenti ma quella interpretazione razionale priva dell’emozione sentimentale usciva dagli schemi ammissibili e quindi risultava incomprensibile, impossibile.
Un’amica che ha letto queste considerazioni sulla Arendt nel mio blog mi ha scritto: “La resistenza a esercitare il pensiero (sarebbe appagante) si accanisce appena si affaccia la prospettiva di soddisfazione (di pensiero) e allora è angoscia. Meglio stare nei ranghi. Pare incredibile ma è così”.

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