UN DESTINO SALVIFICO PER TUTTI: UN PENSIERO SANO (9.12.2013)
L’editoriale (e la copertina) del numero natalizio della rivista di Caritas Ticino che esce in questi giorni.
UN DESTINO SALVIFICO PER TUTTI: UN PENSIERO SANO
Buon Natale ai nostri lettori e a chi ci segue per via elettronica con la natività di Egon Shiele.
Una copertina natalizia inusuale e poco conosciuta. Si sa poco comunque
di questo quadro, per me stupendo, su cui posso persino permettermi di
pensare cose azzardate visto che non sono molti i critici autorevoli che
ne hanno parlato. Oso quindi l’accostamento con la trinità di Rubliev
col triangolo dei tre personaggi, la prospettiva rovesciata e il calice
centrale. Qui il personaggio più enigmatico è Gesù infante, forse già
nato o forse ancora nel grembo della madre, già e non ancora, che gioca
con le mani, sfumate all’interno del probabile sacco amniotico, mentre
le mani degli adulti si intrecciano proteggendolo, nel rimando circolare
che mi sembra costruisca il triangolo dell’accoglienza della nuova vita
e della vita in generale, salvata da quel personaggio centrale
disegnato in oro come nelle icone bizantine.
Tratto graffiante che mi interroga su quella nascita all’origine della
tradizione cristiana che, se svuotata dall’inutile sentimentalismo di
cui è stata caricata, diventa paradigma del destino buono e salvifico
che si pone in termini dialettici con tutta l’umanità. Penso per
analogia alla carica dirompente di certi personaggi religiosi descritti
da artisti non credenti che, con straordinaria onestà intellettuale, si
sono posti in ascolto con un atteggiamento interrogativo; l’urlo di San
Francesco della Cavani ad esempio. Un Natale che pone in nuce l’ipotesi
del destino salvifico per tutti, l’ipotesi esistenziale dell’eternità,
come pensiero straordinariamente affascinante fondato sulla
sovrabbondanza, contrapposta alla visione maggioritaria fondata sulla
penuria. Un pensiero intelligente perciò sano. Fuori dal coro.
Ho incrociato Hanna Arendt, giornalista ebrea (1906-1975) attraverso il
film di Margarethe von Trotta dell’anno scorso. Ciò che mi ha colpito
della sua vicenda raccontata nel film, è l’impossibilità di
metabolizzare un pensiero originale quando questo esce dagli schemi in
cui si è codificato il range delle variazioni ammissibili. Come dire che
oltre un certo limite non si possono neppure contemplare pensieri
originali diversi dal pensiero dominante. Il mondo ebraico ha
stigmatizzato la Arendt perché, seguendo il processo del nazista Alfred
Eichmann e scrivendone sul New Yorker, osò sviluppare la seguente teoria
che tento di sintetizzare: la difesa di Eichmann e dei capi nazisti in
generale, secondo cui hanno obbedito a ordini superiori, introduce un
pensiero generale pericolosissimo in quanto nega la possibilità di
pensare. Ma quando non si può pensare è impossibile anche un pensiero
morale, quindi chiunque, cioè una persona normalissima, può diventare
l’artefice dei crimini più efferati contro l’umanità senza essere
responsabile di nulla. La Arendt è stata accusata di cercare di
assolvere Eichmann e ne ha viste di tutti i colori a cominciare dai suoi
amici più intimi che pensavano avesse tradito i 6 milioni di Ebrei
sterminati dai nazisti.
Si trattava ovviamente di intellettuali intelligenti ma quella
interpretazione razionale priva dell’emozione sentimentale usciva dagli
schemi ammissibili e quindi risultava incomprensibile, impossibile.
Un’amica che ha letto queste considerazioni sulla Arendt nel mio blog
mi ha scritto: “La resistenza a esercitare il pensiero (sarebbe
appagante) si accanisce appena si affaccia la prospettiva di
soddisfazione (di pensiero) e allora è angoscia. Meglio stare nei
ranghi. Pare incredibile ma è così”.
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