La pulsione di morte come lavoro per morire
Io ho avuto il privilegio di accompagnare, e state attenti! non è un discorso tristo, ho avuto il privilegio di accompagnare Giacomo Contri fino alla morte e ho capito quello che è in atto in un uomo che, gravemente ammalato, a un certo punto…, un uomo che non ha mai pensato alla morte, l’avrà forse fatto come tutti da nevrotico ma il pensiero sano non pensa alla morte, “la morte non è un pensiero”, diceva Giacomo Contri, anzi si pensava eterno, e aveva sempre un domani. È arrivato un momento qualche settimana prima, e sempre di più negli ultimi giorni, in cui non solo gli veniva meno il corpo, ma era sempre più incapace, inabile di recepire gli eccitamenti, fino agli ultimi due giorni quando non riusciva a bere, a mangiare, neanche a fumare [chi lo ha conosciuto sa cosa intendo dire]. [Persino parlare gli era diventato uno sforzo immane di articolazione e emissione di voce: solo parole-frasi e un’ultima frase-messaggio, l’ultimo suo ricomporsi]. Insomma il corpo gli era venuto meno come quel bene che è, nell’essere umano, la fonte dell’eccitamento, la fonte della spinta all’eccitamento assunta dal pensiero come esso stesso eccitamento. Non posso dire che non volesse eccitamenti, cioè non volesse più saperne di quello che veniva dall’esterno, ma non sapeva come raccoglierli.
Ebbene, questo corrisponde alla descrizione di Freud ripresa da Mariella (intervento precedente), della pulsione di morte. La pulsione di morte è una legge (pulsione /legge) così come lo è la pulsione, o legge di moto a meta, salvo che non ha la meta del profitto, ha un’altra meta, quella del “basta, va bene così”, dello spegnere [l’ancora e ancora]. Ed è a tal punto attiva da formare un’attività. Infatti la tradizione parla di “buona morte”. E lui ha seguito la forma di questo movimento fino a non respirare più. Io considero questo ‘non più’ come ‘la meta normale’ della pulsione di morte. Considero cioè la pulsione di morte come ‘lavoro per morire’. Così come per chi resta ci sarà un lavoro di lutto da fare, che è il lavoro per lasciarlo andare. Io, quantomeno, mi sono accorta che si trattava di questo per me: lasciarlo andare, nel pensiero, nel ricordo, negli errori percettivi delle prime settimane quando si è abituati a certi movimenti, a certi comportamenti.
Ma, ecco che questa stessa pulsione di morte può avere altre mete: mete patologiche, cioè non volerne più sapere di eccitamenti esterni. Non volerne più sapere di nessuno, il ritiro fino all’autismo, fino alla catatonia, che però per un vivente con un organismo sano non riesce, non si riesce. Il catatonico non riesce a non sentire niente, infatti sente tutto ma ha la superbia di non far sapere agli altri il suo desiderio di ottenere profitto, di ottenere il rapporto con un altro: “io non ho bisogno di nessuno”. Volevo aggiungere questa sottolineatura e distinzione a quanto detto da Mariella, perché in effetti la forza presente come possibilità di “spegnere”, di non volerne più sapere, esiste come forza biologica. Alla fin fine è lo stesso per il senso di sazietà: “basta così” equivale a non volere più eccitamento. Ed è, Freud parlava di “impasto”, è impastata con la legge di moto a meta, le serve, non le è opposta, nel pensiero sano.