Natale è la nascita di Gesù e la sua prima notte di vita nel presepe è la rappresentazione dello stupore e della contemplazione da parte di alcuni che in modi diversi sono venuti a conoscenza di quell’evento. Dalle persone semplici, i pastori e i bambini, agli intellettuali, i magi d’oriente, che sono venuti da molto lontano. Sono venuti in quella stalla di Betlemme ad adorare un bambino che avrebbe assunto su di sé il male del mondo in una prospettiva di redenzione e di salvezza per l’umanità. Questa storia, raccontata e dipinta come poche, ha valenze diverse a seconda del contesto culturale e religioso a cui si appartiene: per il credente il bambino nella mangiatoia è Dio fattosi uomo, mentre per gli altri quella nascita segna l’inizio di una esperienza religiosa che dopo duemila anni conta un miliardo e mezzo di fedeli.
Ma ci sono alcuni elementi che indipendentemente dalla fede personale, mi sembra possano essere di un certo interesse per tutti.
Il fatto raccontato, descritto, dipinto, scolpito e rappresentato migliaia di volte, mette in evidenza l’elemento straordinario della condizione di quel bimbo portatore di una promessa di salvezza e di riscatto dal male per gli esseri umani, di cui, prendendo la natura, assume la condizione del neonato che non è in grado neppure di sopravvivere da solo. Paradosso e sproporzione fra la situazione del bambino appena nato e la sua promessa altisonante. Ma chi va a trovarlo per vederlo, per contemplarlo, per adorarlo, non sembra toccato da questa contraddizione, anzi il racconto descrive stupore e serenità da parte di tutti. E quelli che sono andati a Betlemme a vedere Gesù racconteranno ad altri quell’esperienza. Abbiamo motivi diversi per spiegare quel comportamento: dai segni astrali, come la stella cometa, interpretati dai saggi, alle apparizioni di angeli o persino all’autosuggestione per un bisogno innato di trascendenza. Ma in fondo contemplare una situazione paradossale dove fragilità e potenza coesistono è salutare, è saggio, perché evidenzia l’equilibrio della contrapposizione su cui si fonda la natura e in fondo tutta la realtà. Siamo situati ad esempio in mezzo fra l’infinitesimamente piccolo e l’infinitamente grande, dalle particelle che costituiscono la materia, quindi anche il nostro corpo, alle smisurate galassie, e l’incapacità di valutare questi salti di dimensione è solo un indicatore dei limiti della percezione di una realtà forse troppo complessa per gli esseri umani. E in fondo ogni processo dinamico e creativo si fonda su trasformazioni dove la fragilità estrema è una componente necessaria in un certo momento, alla stessa stregua della manifestazione della più grande potenza.
Contemplare ancora oggi in un affresco di Giotto o in un presepe antico quell’immagine di fragilità portatrice di una promessa grandiosa come la salvezza dell’umanità, mi pare possa servire a riproporre un pensiero aperto alla ricerca dell’equilibrio che la nostra persona deve trovare posizionandosi per rapporto alla realtà che la circonda.
Domandarci dove siamo e in che tipo di relazione siamo con la realtà, è il continuo lavoro necessario a farci avanzare nella conoscenza e a farci maturare nella coscienza di cosa siamo. Contemplare credo significhi aumentare la distanza da se stessi, allontanarsi da se stessi, per vedere meglio dove si è situati, per guardarsi come se fossimo “altri”, un po’ come nelle esperienze di premorte quando si ha l’impressione di uscire dal proprio corpo e di guardarsi.
Gli esseri umani sono speciali nel sapersi rovinare l’esistenza, cioè nell’impedirsi di raggiungere l’obiettivo della felicità. Credo che la chiave di volta per andare verso la felicità stia nel capire cosa sia il massimo bene per se stessi, che è la strada per raggiungere la pienezza, o il compimento, la risposta al più profondo bisogno di significato della propria esistenza. Credo possa servire contemplare il presepe e poi guardare le persone che si amano con lo stesso sguardo, prendendo quella distanza da se stessi necessaria per risituarsi nella posizione più armonica per cogliere le indicazioni e i segnali che aiutano a capire se siamo posizionati adeguatamente. Siccome è in gioco la nostra felicità e in fondo anche quella di chi amiamo, vale la pena di provare anche solo per qualche istante a contemplare un presepe, anche solo per vedere se funziona.
All'incontro natalizio degli operatori di Caritas Ticino il 19.12.2017 nella sede di Pregassona ho raccontato più o meno quello che ho scritto in questo post. Ecco la registrazione audio di 16 minuti e mezzo.
Ecco una aggiunta a questo post dopo qualche settimana, perché su un altro registro, quello della comunicazione attuale di atmosfere natalizie legate alla tradizione, ho avuto il piacere di collaborare attivamente alla realizzazione di un video prodotto da Caritas Ticino nel quadro della sua trasmissione televisiva settimanale su Teleticino e su youtube. Tre artisti con l'associazione Materiale Elastico hanno proposto in Capriasca alcune iniziative di cui raccontano nel video Natale: tradizione e comunicazione con Piera Gianotti, Alice Noris e Antonio Zitarelli. In onda il 6 gennaio 2018, è stato una occasione di riflettere su questioni di linguaggio.
La povertà e l'ideologia dominante: dai media (RSI in primis) allo Stato e ai privati
Il 23 novembre 2017 a pag 25 del Giornale del Popolo ho avuto l'onore di un terzo di pagina per esprimere ciò che penso della povertà in Svizzera da raccontare in TV.
La giornalista che mi ha contattato mi ha scritto che aveva visto la trasmissione "60 minuti" della RSI2 del 20 novembre Il costo della Povertà 60-minuti/RSI2. Voleva sapere da me come si fa ad approfondire il tema della povertà vista l'esperienza televisiva di Caritas Ticino a cui ho dato il mio contributo fin dalla sua nascita nel 1994. Non so quanto fosse cosciente del fatto che "60 minuti" era agli antipodi della mia lettura della povertà e darmi carta bianca voleva dire dar voce a una posizione ben diversa sulla lettura della povertà da quella dominante e stravincente su tutti i media, fra i politici e fra le organizzazioni caritative/assistenziali. Nessuno se ne sarà accorto perché la mediocrità intellettuale è lo standard accettato incodizionatamente ma il discorso improntato sulle risorse delle persone che non sono mai definite dalla loro indigenza, povertà, penuria, handicap e mancanza, che io ho fatto mio e di Caritas Ticino partendo dal Vescovo Eugenio Corecco, poi da Muhammad Yunus, Amartya Senn e C.K.Prahalad, e dall'enciclica di Benedetto XVI del 2009 Caritas in veritate, non ha proprio nulla a che vedere con quello che hanno detto i partecipanti a "60 minuti" ne "Il costo della povertà".
La tesi dominante sulla povertà in Svizzera è stata esposta infatti nei primi minuti della trasmissione con alcuni dati di cui il conduttore ha detto, spazzando via ogni spazio di possibile obiezione: "sarebbe da incoscenti ignorare questa situazione". E la situazione che sarebbe da incoscienti ignorare è che in Svizzera ci sarebbero 75000 bambini poveri e più di 200000 a rischio di povertà e in Ticino una famiglia su tre se riceve una fattura di 2500 FR non prevista, non è in grado di pagarla. Tutta la trasmissione è stata uno sviluppo analitico con abbondanti scivolamenti pietistici per dimostrare la tesi della povertà dilagante e sostanzialmente del fallimento totale dello stato sociale al punto che oggi, secondo loro, le organizzazioni private devono sopperire ai buchi dello Stato inadempiente. Un quadro da catastrofe che però è estremamente gratificante perché fa sentire tutti buoni e protesi verso i poveri che finalmente ci sono. E verso Natale questo è proprio un bel ragalo!
Questo quadretto catastrofico non ha avuto la benché minima obiezione o accenno a ipotesi diverse in tutti i 60 minuti di trasmissione: i due ricercatori, con linguaggio dotto e piacevole hanno sciorinato la teoria della penuria che non ha vie di uscita se non in un miracolo economico in cui i poveri svizzeri di conseguenza diventerebbero ricchi! Uno dei due, spiegando i parametri per definire i poveri in Svizzera ha accennato alla difficoltà di paragonare il parametro della soglia di povertà in valore assoluto (franchetti sonanti) con quello degli altri stati europei e quindi la sostituzione di questo paramentro con quello "relativo" del 60% del reddito medio, e nessuno ha reagito e forse nessuno si è accorto di cosa realmente stesse dicendo: in realtà aveva messo il dito sulla piaga di un indicatore illuminante dei criteri molto relativi adottati in Svizzera. Se infatti si adotta la soglia di povertà in valore assoluto, cioè 2500 Fr per persona singola e 4000 per coppia con due figli, si deve aver vergogna ad andare a raccontarlo mettendo il naso al di là della frontiera, dove più aumentano i kilometri e più l'assurdità appare evidente. La povertà materiale infatti nel mondo esiste ma non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella svizzera sbandierata da media, dai politici e dalle organizzazione assitenziali private.
Quando avevo i miei 5 figli piccoli e mia moglie non lavorava probabilmente se ci fosse arrivata una fattura improvvisa di 2500 Fr non avremmo potuto pagarla interamente quel mese, ma non ci siamo mai sentiti poveri ed abbiamo sempre pensato di avere risorse e creatività per mantenere modestamente ma decorosamente il livello di vita della nostra famiglia. Questo perché la povertà ,materiale in paesi ricchi come la svizzera è prima di tutto nella testa delle persone ed è ideologica.
Non avere sempre tutto e subito può essere una palestra interessante per valorizzare le proprie risorse ed abituarsi a interrogarsi su cosa potrei prima di tutto fare io prima di aspettare che altri, lo Stato o chissà chi, si debbano preoccupare per me.
Ma poi quello che mi disturba in questo piagnisteo, che si aquisce ogni anno in periodo prenatalizio, è che questo non è mai da stimolo o da pungolo per affrontare il problema dei bassi salari, della mancanza di contratti collettivi per diverse categorie, del dumping salariale che creano disparità e disuguaglianze inaccettabili fra i lavoratori: una questione di giustizia sociale prima che di povertà. Quasi paradossale, per non dire grottesco, che fra gli ospiti di "60 minuti" ci fosse un ex esponente di spicco del mondo imprenditoriale ticinese riconvertito recentemente all'umanitario di stampo assistenzialista che oggi si commuove scoprendo i poveri svizzeri, con distribuzioni di zainetti scolastici ai bambini meno abienti. Mancava solo il frate delle mense dei poveri che forse non poteva quella sera.
La cosa più triste per me comunque in questa diffusione a macchia d'olio della visione pauperista dominante è l'assenza della contrapposizione di quella straordinaria saggezza che la Chiesa, quando pensa, è capace di proporre con una lettura dell'economia e del sociale come in Caritas in veritate.
Oggi ho portato l'abituale caffè a letto a Dani e secondo un calcolo semplificativo è il 16790esimo. In questo 46esimo anno di matrimonio c'è stata una nuova tappa/svolta della nostra vita in quanto siamo pensionati che possono organizzarsi la propria vita quasi senza agenda e senza obblighi particolari. Cioè scegliendo cosa fare o cosa non fare e quando. Con strane derive come quella di vivere da uccelli notturni che poi hanno qualche problemino a relazionarsi col resto del mondo che di notte dorme e di giorno è sveglio. Un cambiamento anche molto visibile comunque è stata la trasformazione parziale della nostra casa di Vaglio con alcuni locali rinnovati e/o riarredati, alcuni con cambio di destinazione. Quindi ad esempio il caffè di stamattina l'ho portato nella bedroom attuale che non è più quella dell'anno scorso diventata studio.
E poi cucina e bagno hanno cambiato faccia con i mobili fatti su misura con legno antico proveniente dal convento del Bigorio, da nostro nipote Stefano Piccardo, un falegname che fa esattamente quello che gli chiediamo, inventandone di tutti i colori per accontentare soprattutto le mie fisime sulle cose antiche, visto che il mio modello di riferimento spesso sono i castelli medioevali.
E ci ha rifatto le finestre riproducendo una delle nostre antiche originali con meccanica d'epoca, riprodotta adesso, e le "tapparelle" esterne secondo disegni tradizionali
Aspettando amici e famigliari per festeggiare...
...con la torta a forma di cuore
che nostra figlia Alice ha immortalato e postato sulla chat famigliare di WhatsApp con: 46 together
Tra i desideri, se non proprio un sogno ma quasi, da anni volevo imparare a disegnare in 3D, cioè modellizzare con un computer oggetti che, una volta realizzati esistono nello spazio virtuale e possono essere guardati da qualunque angolazione, facendoli girare o girandoci intorno. Si possono fotografare o filmare creando delle animazioni, come se esistesse davvero l'oggetto tridimensionale che si è disegnato/scolpito virtualmente. Ma quando lavoravo, a ritmi piuttosto elevati, il tempo non l'ho mai avuto. Mi limitavo a seguire quello che realizzavano alcuni dei miei figli, Basilio e Gioacchino, che si sono avventurati in quell'universo creativo e hanno realizzato gli sfondi per diverse serie video virtuali di Caritas Ticino nel corso degli anni. Ma poi a gennaio, da pensionato, ho finalmente rispolverato questo desiderio da finalizzare a una nuova serie video che uscirà tra breve su youtube e sul canale viacavo Teleticino, a cui è dedicata la copertina della rivista di Caritas Ticino appena uscita.
Alla nuova serie video con lo psichiatra e psicoanalista Graziano Martignoni, sono dedicate alcune pagine della rivista. E Martignoni racconta cosa ha voluto fare in questo percorso chiamato "Alleati nel giardino della cura"
E nelle due pagine successive Chiara Pirovano, storica dell'arte, dà una panoramica del complesso universo che Bosh ci ha lasciato col suo capolavoro "Il giardino delle delizie"
Ma torniamo indietro all'inizio di quest'anno per raccontare passo per passo cosa ho fatto per arrivare agli sfondi che accompagneranno le 26 puntate della rubrica "Alleati nel Giardino della cura". Per alcuni mesi ho seguito e incrociato molte lezioni trovate online sul software Zeta Brush, un programma che permette di scolpire nello spazio virtuale, avendo l'impressione di modellare veramente le masse di materiale che man mano si prendono, si ricombinano e si deformano. Per un pò ho realizzato forme senza un obiettivo finale, solo per esercitarmi, cercando di capire la tecnica e tutte le infinite variazioni da scoprire in miriadi di menu e in un numero smisurato di procedure. Per un bel po' ho creduto di non farcela a gestire questo programma piegandolo a un 'idea che avevo da tempo riguardo all'ambientazione della nuova serie video di Caritas Ticino, l'uomo albero del Giardino delle delizie di Jheronimus Bosch.
Piano piano a furia di provare e riprovare, con la caparbietà o la testardaggine che si spolvera quando si vuole assolutamente realizzare qualcosa, riuscivo finalmente a modificare le forme e a trattarle secondo quanto mi raccontavano i vari esperti insegnanti online o secondo quanto mi veniva in mente. E un bel giorno ho deciso di smettere di seguire i corsi base di Zeta Brush e di cercare, anche se molto lentamente, di realizzare il mio Uomo Albero, The Tree Man. Mi sembrava una sfida impari, complicatissima e ho avuto più volte il sospetto che non ce l'avrei mai fatta a realizzare qualcosa di decente. Allora ho suddiviso le tappe per cui step by step andavo avanti con piccoli traguardi, l'uovo del corpo centrale, tagliarlo e romperlo, poi una prima rudimentale gamba studiata in diverse parti, collegate a gruppi solo quando mi sembrava di aver fatto quello che avevo in testa come immagine.
Poi ho modellato la seconda gamba, quella dietro a sinistra, inventando quelle parti che il quadro di Bosch non mostra. Avevo intanto comperato una scultura di plastica dell'uomo albero che ho scoperto avere diversi errori, che ho corretto spostando i personaggi e la zampogna che erano posizionati scorrettamente. Ho passato ore a trafficare, guardare e rivoltare quel modello di plastica cercando di tradurlo nella mia testa in una visione 3D che mi aiutasse nella trasposizione virtuale.
E sicuramente questo tempo passato con questo oggetto "reale" mi ha facilitato. E quando la modellizzazione si avviava verso le ultime fasi ho utilizzato la capacità di riflettere del materiale metallico che avevo adottato. Ho fatto riflettere la parte alta del lato sinistro del trittico di Bosch, il giardino dell'Eden perché la serie video che stavamo preparando sulla "cura" con Graziano Martignoni, ha uno sguardo sulla realtà carico di speranza e volevo che questo trasparisse anche se l'Uomo Albero nel quadro originale é a destra del trittico nella parte dedicata alla dannazione.
Ora seguirà un gran lavoro di montaggio video, chroma key ecc ecc per il settore video di Caritas Ticino, utilizzando questi sfondi ripresi nelle diverse posizioni corrispondenti agli stessi angoli delle telecamere che in studio su green screen hanno filmato Graziano Martignoni. A me resta invece solo un altro compito da realizzare nel mio paese dei balocchi, il solaio di casa mia, dove ho moltissimi strumenti musicali e diversa elettronica per realizzare la musica che servirà per le sigle di inizio e fine di ogni puntata e magari anche da tappeto sonoro sotto il parlato. Ho alcune idee ma in particolare quella di usare anche una cornamusa visto che il simbolo usato da Bosch per rappresentare la "perdizione" è proprio una specie di cornamusa piazzata sopra al piatto/cappello dell'Uomo Albero. Ne ho una irlandese da studio con la quale forse registrerò qualche scaletta; ma visto che domani andrò a spasso per qualche giorno proprio in Irlanda, chissà che non trovi una Irish Uilleann Bagpipe più sofisticata per registrare la musica di "Alleati nel giardino della cura". To be continued
Oggi molti quotidiani hanno ignoratol'anniversario del 9/11. Neanche una riga sui quotidiani ticinesi e nessuno spazio in TV ma anche nel resto dei media mondiali l'attenzione è stata minima. Certamente fra uragani e terremoti c'era di che scordarsi di questo anniversario che non fa più notizia, ma è un errore. Parlare dell'11 settembre 2001 non è solo ricordare un attentato importante con 2753 morti ma non dimenticare un momento di svolta davvero epocale sul piano della nostra percezione del quadro mondiale globalizzato. Con le torri gemelle a New York è crollato infatti un modo di guardare alla realtà sociopolitica planetaria che è diventata il bersaglio debole nel mirino di chi vorrebbe il controllo del pensiero di tutta l'umanità. Per me e per molti, ogni anno far memoria dell'assurdità di un pensiero malato, è d'obbligo, perché solo ricordando si mettono le basi per costruire un mondo che sappia giudicare le assurdità nella prospettiva che si eviti di ripeterle. Su Twitter, almeno, il ricordo mi è parso essere ancora vivo ed ecco alcune immagine che ho salvato.
9/11: trovare risposte nelle ceneri 16 anni dopo E il New York Times, che ha comunque dato ben poco spazio al 9/11, ha pubblicato un articolo che ricorda la ricerca mai abbandonata dai famigliari delle vittime che chiedono di continuare le analisi dei resti per ritrovare qualche traccia dei propri cari
The New York Times 9/11/2017 Opinion – Editorial By the editorial board
9/11: Finding Answers in Ashes An inscription on the lobby wall greets visitors in Latin at the offices of the New York City medical examiner. It is an adage familiar to places where autopsies are performed. Reasonably translated, it says: “Let conversation cease. Let laughter flee. This is the place where death rejoices to help the living.” Another saying, borrowed from the Book of Proverbs, Chapter 31, might also work were it to be put on that wall: “Speak up for those who cannot speak for themselves.” That, too, is what the medical examiner’s office is about. Rarely has it been called upon to speak up as relentlessly as it has for those whose voices were silenced at the World Trade Center 16 years ago. For the chief medical examiner, Dr. Barbara Sampson, and her staff, the terrorist attacks of Sept. 11, 2001, are never past. All these years later, the team still strives to scientifically identify each of the 2,753 people who were killed in the destruction of the twin towers. “We made a commitment to the families that we would do whatever it takes, for as long as it takes,” Dr. Sampson said. “We’re the family physician to the bereaved.” Death certificates for the victims were issued long ago. But assigning identities to the 21,905 human remains that were recovered from the wreckage is a separate matter. Only 1,641 of the 2,753 victims — 60 percent — have been positively identified, mostly through DNA analysis. The success rate is slightly better, 64 percent, in regard to the 405 firefighters, police officers and emergency medical workers who died at ground zero. Time has not been a friend of the forensic teams. Victim No. 1,641 — a man who, at his family’s request, has not been publicly named — became known to them a month ago. This was nearly two and a half years after No. 1,640 was identified: Matthew David Yarnell, a 26-year-old technology specialist who worked on the 97th floor of the south tower. Before that, six months had gone by since No. 1,639: Patrice Braut, 31, the lone Belgian citizen among the victims. He worked on the 97th floor of the north tower. “It’s a slow go,” Dr. Sampson said. “We’re now down to the ones that are very difficult to get useful DNA.” The genetic material that’s available is sometimes no more than the tiniest patch of flesh. Some remains lay in the wreckage for weeks, months, even years — degraded by water, burning jet fuel and all manner of debris from the downed buildings. In addition, bacterial DNA intermingled with human matter. “It was the worst combination of events you could have for a DNA specimen,” said Dr. Sampson, who has been the city’s chief medical examiner since December 2014. Recent scientific advances, including what she described as a bone-extraction technique, made it possible to identify the 1,641st victim. That gives her hope that the process is not stuck. “I am optimistic we will identify more people,” she said. “But do I think we will be able to identify every single person? Probably not.” Apparently, relatives of the victims have not given up. None of them have told the medical examiner’s office that, after the passage of so much time, they no longer care about matching slivers of remains to their loved ones. “We work very closely with the families,” Dr. Sampson said. “We know every family’s wishes as for what they want us to do.” Since 2014, unclaimed remains have rested 70 feet underground in a repository at the National September 11 Memorial & Museum in Lower Manhattan. Only members of the medical examiner’s office may enter the area (though no laboratory work is done there). Next to the repository is a quiet space known as the reflection room, reserved for Sept. 11 families and their guests. Not surprisingly, the anniversary is a time of pilgrimage there. In a typical month, 20 or so people go to the room. On Sept. 11 alone last year, 65 visited. Just about every week, a few families will call the medical examiner’s office with questions, mostly of a technical or administrative nature. Still, often enough, there’s a catch in the caller’s voice or a verbal tic that makes plain how time is an imperfect healer. “You can get a sense of despair,” Dr. Sampson said. “And hope,” she added.
Basilio (mio figlio, quindi Noris!) mi segnala un articolo molto interessante del New Yorker di Robin Wright, non la brava attrice, ma una ottima giornalista che ha incontrato tutti e sa tutto sul terrorismo e non solo. La seguo e l'apprezzo da diverso tempo. Qui fa un'analisi del panorama del terrorismo dall'inizio ad oggi che permette di capire un po' di più i vari meccanismi di funzionamento di questo fenomeno.
The new Yorker Sixteen Years After 9/11, How Does Terrorism End? By Robin Wright September 10, 2017 The current spasm of international terrorism, an age-old tactic of warfare, is often traced to a bomb mailed from New York by the anti-Castro group El Poder Cubano, or Cuban Power, that exploded in a Havana post office, on January 9, 1968. Five people were seriously injured. Since then, almost four hundred thousand people have died in terrorist attacks worldwide, on airplanes and trains, in shopping malls, schools, embassies, cinemas, apartment blocks, government offices, and businesses, according to the National Consortium for the Study of Terrorism and Responses to Terrorism. The deadliest remains the 9/11 attack, sixteen years ago this week, which killed almost three thousand people—and in turn triggered a war that has become America’s longest. I’ve covered dozens of these terrorist attacks on four continents over that half century. After the Barcelona attack and the U.S. decision to send more troops to fight the Taliban, I began to wonder how terrorism ends—or how militant groups evolve. In her landmark study of more than four hundred and fifty terrorist groups, Audrey Kurth Cronin found that the average life span of an extremist movement is about eight years. Cuban Power carried out several other bombings, but, in the end, it didn’t last a whole year. I’ve also witnessed some transitions that I never thought would happen. I interviewed Yasir Arafat several times when the United States considered him a notorious terrorist. He was a paunchy man of diminutive height, a bit over five feet, with a vain streak. He always wore plain fatigues, crisply pressed, and a checkered kaffiyeh headdress to conceal his bald pate. He was linked, directly or indirectly, with airplane hijackings, bombings, hostage-takings, and more. Israel thought that Arafat was defeated after its 1982 invasion of Lebanon. I watched from the Beirut port as the chief of the Palestine Liberation Organization and his fighters sailed off to new headquarters in Tunisia, a continent twenty-five hundred miles, by land, from the frontlines. Eleven years later, I was in Washington when Arafat and Yitzak Rabin signed the 1993 Oslo peace accords. They shared the 1994 Nobel Peace Prize. President Bill Clinton hosted Arafat more than any other head of state. I flew with the next four secretaries of State to see Arafat, to discuss the next steps for an enduring peace, in the Palestinian Authority. A quarter century later, it’s far from over. But it did begin. In the run-up to the 9/11 anniversary, I reached out to eight terrorism experts who’ve long studied the phenomenon at the C.I.A., the F.B.I., the National Security Council, the State Department, the Rand Corporation, and in academia. They identified six ways terrorism evolves, fades, or dies—and under what conditions it succeeds. Fewer than five per cent of terrorist groups succeed outright, Cronin told me. Among the most notable was Irgun. The Jewish group bombed Britain’s colonial offices in Palestine and diplomatic sites abroad, as well as local Arab targets. Its most famous attack was in 1946, when members, dressed as waiters, planted a bomb, concealed in milk cans, in Britain’s headquarters in Jerusalem’s King David Hotel; ninety-one were killed. The group was then led by Menachem Begin. Two years later, Irgun realized its goals when British troops withdrew and the state of Israel was founded. Three decades later, Begin, then the Prime Minister, shared the Nobel Peace Prize for détente with Egypt. Another was in South Africa. In 1961, Nelson Mandela founded the armed wing of the African National Congress. Its first attack was five bombings on government facilities on the same day, in Johannesburg, Durban, and Port Elizabeth. Mandela was arrested and sentenced to life for sabotage. Decades later, as apartheid floundered, the white-minority government ceded power. Extremist groups are more likely to succeed when objectives are limited or attainable, “such as independence, a role in government, or a piece of territory,” Richard Clarke, the national coördinator on counterterrorism under the Clinton and George W. Bush Administrations, told me. “If a group can increase the pain point to the decision-makers, they will give in. That was true of many independence movements, including the American Revolution.” “Then they go straight,” Clarke added. “They trade off their radicalism to become a government that is not that out of line with other governments of the world.” More common—about eighteen per cent—are terrorist movements that end up negotiating to achieve their political goals. “They are the groups that hang on the longest. Their life span as terrorists is usually twenty to twenty-five years,” Cronin told me. “Usually, the talks trundle along. They often take years, and some lower level of violence continues,” she said. “But they rarely fail outright.” The P.L.O. negotiated. This summer, Colombia’s FARC guerrillas ended a half century of kidnappings and killings in a historic peace deal. Northern Ireland’s Provisional Irish Republican Army was party to the 1998 Good Friday Agreement. It had attacked London’s financial district, in 1993; the British Prime Minister’s residence, at 10 Downing Street, in 1991; and the hotel where Margaret Thatcher’s Conservative Party was meeting, in 1984. Today, Sinn Féin—the I.R.A.’s political wing—is the most popular party in Northern Ireland, Bruce Hoffman, the author of “Inside Terrorism,“ noted. “The leaders of the moderate Catholic party—the Social Democratic and Labor Party—won a Nobel Peace Prize, but it’s Sinn Féin that is being elected now.” Negotiations respond to other factors. The P.L.O., FARC, and the I.R.A. were weakened by military campaigns against them and ebbing momentum. Israel, Colombia, and Britain, in turn, altered course as costs mounted over decades and public support waned. But when extremist groups walk away from negotiations—as happens ten per cent of the time—they often get crushed. Sri Lanka’s Tamil Tigers pioneered the suicide vest. It was the only terrorist group to assassinate two world leaders—India’s Rajiv Gandhi, in 1991, and the Sri Lankan President Ranasinghe Premadasa, in 1993. At its peak, it controlled strategic chunks of the country. But years of sporadic peace talks broke down in 2006. In 2009, the Sri Lankan military crushed the Tigers in a relentless offensive. A third pattern is terrorist “reorientation,” when groups alter tactics, sometimes even entering politics. I lived in Beirut when embryonic precursors of Hezbollah launched the first suicide bombing against an American Embassy, in 1983. After the attack, the seven-story building, which was down the hill from my office, looked like a doll’s house with its façade blown off. Sixty-four died, including some of my friends. Six months later, a bomber drove a Mercedes-Benz truck into the barracks of U.S. Marine peacekeepers in Lebanon. Two hundred and forty-one marines died in the largest loss of U.S. military life in a single incident since the Second World War. I still recall the roar of that bomb waking me up on a balmy October morning, and watching for weeks as the bodies of my countrymen were recovered from under tons of debris. A decade later, Hezbollah emerged from the underground to run for Parliament, build a network of social services, and greatly expand its support base. Today it has seats in Parliament, Cabinet positions, an alliance with Lebanon’s President, and the largest military force outside the army, as well as hospitals, schools, and welfare agencies. I spent several hours interviewing its leader, Hassan Nasrallah, in 2006, and his deputy, last October. Yet Hezbollah still calls for Israel’s destruction. The United States considers it one of the most dangerous terrorist groups. “Hezbollah doesn’t rule Lebanon, but it controls it. The message is that terrorism pays. It is translated into power,” Hoffman told me. Cronin added, “This is the least satisfactory pattern.” The fourth path is state repression, the most instinctive reaction. It worked against the Tupamaros, in Uruguay, in the nineteen-seventies. But the results often produce massive destruction, unintended consequences and mutations. Russia’s campaign against Chechen extremists made vast swaths of Grozny uninhabitable, and Chechen militants moved elsewhere. Since 2014, thousands of Chechens have joined ISIS in Syria and Iraq. “Military repression usually backfires,” Jessica Stern, the co-author of “ISIS: The State of Terror” who was a national-security staffer in the Clinton Administration, told me. “Even when they seem to end, they keep merging, splitting, renaming. When a particular group is banned or defeated in one area, it may very well appear in a new guise, under a new name.” Other terrorist movements collapse as the national and international political dynamics that fuelled them fade. “Either they implode, burn out, and collapse, or they lose popular support and fizzle out,” Cronin said. “They may succumb to infighting, disagreements about ideology, arguments over tactics, or other kinds of internal dissent,” including fratricide. Right-wing extremists were never able to sustain themselves, Hoffman said. “They made a lot of noise, but they had no message or cohesiveness. And they didn’t get the support that every terrorist group needs from state sponsors or enablers.” Leftist and Marxist terrorists in Europe—Italy’s Red Brigades, Germany’s Baader-Meinhof Gang, France’s Action Directe—produced big headlines in the nineteen-seventies and eighties. They sought to overthrow capitalist governments. In 1978, the Red Brigades kidnapped the former Italian Prime Minister Aldo Moro, after killing his five bodyguards. The group held Moro hostage for fifty-four days and, when the government refused to release political prisoners, put him in the back of a car, covered him in a blanket, and shot him eleven times. In 1981, it kidnapped U.S. Brigadier General James L. Dozier, a senior NATO official, from his apartment in Verona. He was rescued forty-two days later. “The fanciful European groups of the nineteen-eighties had a political cause and practiced violence. But they were more like cults than terrorist groups,” Clarke said. “They never had a chance of succeeding. What happens with the cults is that the leadership gets arrested, other people pull out or go to ground. The groups become so discredited as whack jobs that they have no new adherents.” The Soviet Union’s collapse was their death knell. “They faced a perfect confluence of fatal factors,” Hoffman said. “The citadel they worshipped no longer existed, so there was no rationale to sustain their movements. With the end of the Cold War, they had no message.” As has happened through the millennia, Hoffman added, “The world changes, and groups become less relevant.” Finally, the decapitation of leaders—by capture or death—can also deflate or finish off movements. For a dozen years, Shining Path terrorized Peru. It bombed government ministries, assassinated politicians, and even massacred peasants, its support base. It collapsed after the 1992 capture of its leader, Abimael Guzmán, in a dance studio in Lima. Japan’s Aum Shinrikyo, which was responsible for the 1995 chemical-weapons attack on a Tokyo subway, declined after founder Shoko Asahara was arrested and, in 2004, sentenced to death. It once had an estimated ten thousand members in thirty-six branches and offices overseas, including in Manhattan. “Decapitation is not a silver bullet,” Cronin warned. “Sometimes it backfires and creates a martyr that can mobilize public opinion.” The killing of Osama bin Laden, in 2011, hurt Al Qaeda, although its five affiliates are still a deadly menace in North Africa, Syria, and the Arabian Peninsula. Which pattern might apply to ISIS and the Taliban? “I’m less confident those lessons apply to the groups we face today,” Brian Jenkins, the author of “Will Terrorists Go Nuclear?,” said. “We’re dealing with adversaries who, tactically, organizationally, and strategically, have given the same amount of thought to terrorism as we have. They have adapted, and, as a consequence, many of them have survived. The idea of ending terrorism looks more complex than it did in the nineteen-seventies.” As an assistant F.B.I. director, Oliver (Buck) Revel headed the Bureau’s counterterrorism program for years. In 1987, he led Operation Goldenrod, an F.B.I.-C.I.A.-Navy program to nab a Lebanese hijacker. It was the first U.S. capture of a foreign terrorist overseas. I covered the trial of Fawaz Younis, who was convicted in a Washington courtroom on three of six counts of hijacking and sentenced to thirty years in prison. I interviewed him after his conviction. He served sixteen years and returned to Lebanon. For thirty years, Revel has tracked how terrorist groups end, or “bleed out.” “As we’ve seen in Afghanistan, it’s hard to bleed them out,” he told me. “They continue to grow when you don’t solve the underlying issues. But what they want is totally inconsistent with Western values. How can you turn around and negotiate with a group that engages in atrocities? Therefore, is the only option to kill? I don’t know. As long as you subjugate the rest of society, there will be friction that will result in terrorism and then war. “It’s a conundrum,” Revel said. “As Americans, we like to think there is nothing that is unsolvable. But it’s foolish to think we’ll ever be able to eradicate all of the causes that produce violence.”