Un gatto, un umano o un androide che si spengono
Oggi per la prima volta ho seppellito una gatta. Sotto un salice. Ho fatto persino una lapide col suo nome altisonante: Marie Curie. Era più o meno in pensione stabile da noi da diverso tempo. È la gatta di mia figlia Alice, si sono accompagnati per quindici anni, ma i musicisti sono sempre in giro e i gatti alla fine possono essere adottati dagli anziani genitori che sono prevalentemente stazionari.
Siccome si è ammalata e dopo un anno si è spenta piano piano, apparentemente senza dolore, ho avuto modo di osservarla mentre andava lentamente verso la fine e poi nelle sue ultime ore di vita. Un essere vivente, quindi a base di carbonio, che conclude un suo personale ciclo di vita, una visione per certi versi commovente dell'ordine naturale in cui si vive e si muore in un alternarsi armonico di queste due espressioni fondamentali dell'esistere: vivere e morire come un compimento di un destino cosmico in cui ogni essere a base di carbonio esprime la sua grandezza, la sua unicità, il suo destino in un ordine più grande.
Non dico questo perché straziato dalla morte del gatto di casa, ci si affeziona ovviamente a un animale anche se non lo si è scelto se ci si ritrova a passare molto tempo assieme, ma le riflessioni suscitate da questa gatta sono di ben altra natura: si tratta di una questione esistenziale relativa a ogni forma vivente che negli umani raggiunge il massimo del coinvolgimento emotivo. Ma vorrei in qualche modo tentare di separare la questione emotiva, dall'osservazione empirica del fatto ricorrente dello spegnersi della vita in tutti gli esseri a base di carbonio.
In questo tentativo il gatto che muore rappresenta la ricorrente espressione dell'alternarsi ripetitivo di cicli che hanno inizio compimento e fine. In una armonia continua che mi pare affermi quello che definiamo in termini filosofico-esistenziali come destino ma che in termini più prosaici sono l'aver compiuto ciò che era giusto fare, quindi avendo contribuito a una sorta di armonia universale. In questo senso sia un gatto o un genio umano possono aver adempiuto al loro compito. Evidentemente qui non mi riferisco alla gatta seppellita oggi ma ad ogni forma di vita che conosciamo e che potremmo avere l'occasione di osservare o perché no, contemplare.
Diversi anni fa, forse decenni, mi ritrovai non so più come ad uccidere dei gatti appena nati perché in sovranumero, secondo una prassi usuale nelle culture rurali che mi hanno sempre affascinato ma a cui non ho mai appartenuto. Ho un ricordo impreciso ma abbastanza lucido sull'angoscia e il rifiuto di quell'intervento di eutanasia che non mi corrispondeva in nessun modo nonostante la contradizione evidente del mangiar carne di animali che ovviamente qualcuno ha macellato. Credo che la chiave di comprensione stia nel moto che definirei instintivo, naturale, di rifiuto di ogni intervento finalizzato a terminare un processo vitale che potrebbe invece protrarsi, senza una motivazione sufficientemente forte per giustificarne la "ragionevolezza". La vita per essere interrotta deve esserci una sorta di ragione superiore che possa rendere l'interruzione accettabile. In qualche modo credo ci sia un valore straordinario nella vita che si esprime in forme molto diverse ma comunque sempre simili dal profilo del meccanismo originale.
Penso ad esempio di essere sempre stato contrario all'aborto per un fascino/rispetto per le forme vitali prima di abbordare questioni ideologiche/sociali/etico/morali che mi sembra vengano dopo. Forse semplificando un po' ho sempre creduto che se un topo è un topo fin dal suo concepimento anche un essere umano lo è e quindi prima di affrontare una lista infinita di questioni complesse e profonde di natura socio-politica, c'è da considerare quel mucchio di cellule che diventeranno un essere umano come una forma vivente che va difesa. Se l'essere umano in divenire è un essere vivente qualcuno deve stare dalla sua parte affermando che l'interruzione della vita è un errore tecnico in prospettiva.
Potrei sembrare assolutamente irriverente paragonando senza fare i distinguo previsti fra l'interruzione delle diverse forme di vita ma credo che fra lo spegnersi della vita di una gatta anziana o lo spegnersi della vita di un essere umano le differenze sostanziali relative all'avvenimento contingente dal profilo strettamente empirico verificabile, siano minori di quanto si creda. Ho accompagnato alcune persone care nel loro ultimo cammino e a distanza di anni, riuscendo a separare l'aspetto emotivo, rimane una serena contemplazione del concludersi di una forma vitale che va osservata come un "giusto" compimento di una sorta di missione personale che ogni essere vivente deve avere in una visione cosmica armonica.
Sono abbastanza vecchio e non vedrò lo sviluppo di forme di vita artificiale intelligente. Con ChatGPT ci sono i primi singulti di cose che andranno molto lontano e forse quello che la fantascienza ci ha offerto come spunti di riflessione potrebbe essere il preludio di una convivenza fra forme di vita a base di carbonio e altre forme che magari avranno solo una percentuale molto bassa di carbonio ma si potranno considerare vitali. Sulla scia di grandi pagine cinematografiche sul tema, ne ho contate almeno una ventina fra le produzioni degne di nota, mi chiedo cosa potrebbe significare accompagnare alla morte, cioè alla fine del ciclo di esistenza, un androide, un forma di vita artificiale intelligente. Il corrispondente del battito cardiaco della nostra gatta che ha cominciato a rallentare fino ad arrestarsi, sarà sostituito da altro che però avrà più o meno lo stesso significato. In Blade Runner Il replicante cattivo alla fine salva l'eroe, Deckart il poliziotto, perché capisce che sta morendo e "amava la vita più di quanto l'avesse mai amata prima. Non solo la sua vita. La vita di chiunque.". E forse è proprio questa la giusta chiave di lettura: amare la vita come qualcosa di straordinario e affascinante sia che sia a base di carbonio o altro, ma che la si possa definire tale al di fuori da qualsiasi forma ideologica che la possa fagocitare.