Dall'infinitamente grande all'infinitesimamente piccolo, la questione esistenziale
Sulla nostra chat di famiglia su whatsapp Basilio ha postato questa sua foto spettacolare (vedi il suo blog astronomico)
col commento: "Per riquadrare un po' il nostro ombilichismo, questo è un quadratino di cielo nella zona della catena di Markarian, in ogni cerchio rosso una galassia con tanti miliardi di stelle e pianeti quanto la nostra. Ma noi per fortuna siamo al centro di tutto...". Ho commentato così: "riuscire ad avere costante coscienza di questa "relatività" potrebbe permettere agli essere umani di vivere molto meglio relativizzando le inezie che li condizionano e li rendono infelici. Ma sono stati costruiti male e non ci riescono."
Due giorni dopo questo scambio vengo a sapere di una malattia importante a una persona a me cara, giovane e mamma, e allora fra lo sconcerto e il dolore per questa notizia mi ritrovo a riflettere sul senso della sofferenza per rapporto allo spazio e al tempo che mi appaiono quasi infiniti per lo strumentario di cui dispongo.
Mi sono fermato a scattare questa foto di un magnifico glicine (noi non siamo mai riusciti ad averne uno fiorito!) proprio pensando a questa ragazza e in particolare a sua mamma, perché un genitore confrontato con la sofferenza di un figlio deve fare i conti con l'impotenza, può solo essere accanto.
Penso anche ad altre persone care che soffrono e tutte mi riportano alla domanda di senso sul limite, sulla sofferenza, sulla finitezza, e quindi sulla mia finitezza.
Tra l'infinitamente grande delle galassie e l'infinitesimamente piccolo degli atomi di cui siamo fatti, per la maggior parte spazio vuoto, credo si debba situare il significato di tutto ciò che esiste e ci circonda, quindi anche il senso della sofferenza, del limite, della malattia, della finitezza e della mia finitezza.
Considerata l'impossibilità ad applicare su noi stessi o sulle persone a cui vogliamo bene, un criterio razionale distaccato e quasi cinico sulla "ragionevolezza inevitabile" del limite e della finitezza perché sono ontologicamente congenite nella struttura umana, siamo disarmati. Le diverse esperienze di fede che molti esseri umani fanno possono essere di grande aiuto ma non risolvono esaustivamente la questione: "perché il limite, perché la malattia, perché la sofferenza, perché la finitezza?".
Con gli anni mi è parso che se le risposte che vorrei, nella formulazione che vorrei, non si trovano, d'altra parte è aumentata la percezione di una pista possibile per comprendere forse un po' del quadro di riferimento. Si tratta di una visione che al posto della mia singola persona ed esperienza, l'unica conosciuta e accertata da ogni singolo essere umano, pone la mia esperienza di corta durata (un secolo al massimo che nel cosmo è un'inezia) in connessione con un prima e un dopo, cioè all'interno di una storia più ampia dove anch'io ho un ruolo temporaneo e un piccolo contributo da dare. Niente di speciale in questa trovata se la applichiamo agli altri ma per poterla applicare a noi stessi trovando in questo un significato per gli aspetti a cui mi sono riferito (limite, sofferenza e finitezza), la faccenda mi pare richieda un lungo cammino di approfondimento personale. Si tratta di uno sguardo al futuro spostato su chi ti sopravviverà, figli, nipoti, generazioni future. Sembra ovvio e scontato ma credo che ciò che può cambiare veramente è trovare pace e serenità nel ricercare il senso della propria esistenza e della propria finitezza nello sguardo di chi prenderà il testimone.
Forse allora il senso della sofferenza di un figlio (un senso introvabile) si può spostare in una ipotesi diversa, quasi cosmica, nello sguardo di un piccolo essere, un nipote, che canalizza le tue domande legittime in una speranza che si dilata ed è come se esplodesse, dall'atomo alle galassie. Perché fra l'atomo e le galassie c'è solo una perfetta continuità dell'esperienza della perfezione e della bellezza, che molti esseri umani hanno chiamato Dio.