mercoledì 28 maggio 2014

IDA



IDA: tra silenzi e ritratti superbamente espressivi (28.5.2014)

Il capolavoro di Pawel Pawlikowski.

Con Agata Kulesza, Agata Trzebuchowska, Joanna Kulig, Dawid Ogrodnik, Adam Szyszkowski, Jerzy Trela

Sceneggiatura Paweł Pawlikowski, Rebecca Lenkiewicz
Fotografia Łukasz Żal, Ryszard Lenczewski

 


Il commento del TheNew Yorker al film Ida del regista polacco Pawel Pawlikowski inizia così: “We are so used to constant movement and compulsive cutting in American movies that the stillness of the great new Polish film “Ida” comes as something of a shock. I can’t recall a movie that makes such expressive use of silence and portraiture; from the beginning, I was thrown into a state of awe by the movie’s fervent austerity.” Consiglio di leggerlo tutto seguendo il link. E vale la pena anche di leggere l'intervista al regista pubblicata da Filmcomment.

Per me è uno dei film più interessanti degli ultimi anni.
Anna, novizia, prima di prendere i voti viene mandata dalla superiora del convento dove ha sempre vissuto perché è orfana, a conoscere l’unica superstite della sua famiglia, la zia Wanda. 
L’incontro delle due donne, cambia la vita di entrambe, la zia svela alla nipote che è ebrea, suo vero nome è Ida, e non Anna, e la famiglia è stata sterminata durante l’occupazione nazista della Polonia, “una suora ebrea!” commenta Wanda.


Due attrici magnifiche che casualmente hanno lo stesso nome Agata, Kulesza la zia e Trzebuchowska la ragazza. Anche se la storia si sviluppa nella ricerca/inchiesta delle tracce della famiglia scomparsa, sostanzialmente si tratta di un viaggio iniziatico alla ricerca del senso dell’esistenza per i due personaggi apparentemente agli antipodi. “Ha dei capelli bellissimi ma non li lascia mai sciolti” dirà a un amante occasionale Wanda, che fra alcool e sesso, sfugge al suo passato di giudice, ed è affascinata da Ida che invece ha vissuto in modo lineare la sua esistenza e la vocazione religiosa, senza mai confrontarsi col mondo esterno: “Se non hai mai fatto l’amore che valore ha il rinunciarvi?” la provoca Wanda. Ma la domanda centrale del film è “perché io non sono lì?” pronunciata da Ida davanti alla tomba scoperchiata dei genitori; le rispondono “perché eri piccolissima e nessuno avrebbe scoperto che eri ebrea”. 


La risposta vera però è un’altra e si intreccia nel destino e nella storia personale, per cui il percorso di Ida matura intorno al rapporto fra il suo drammatico passato appena scoperto e la percezione della nuova realtà che la interroga.


In uno splendido dialogo col sassofonista, Dawid Ogrodnik, che le prospetta una vita futura normale con casa, cane e figli, lei intercala insistentemente sorridendo “E poi? E poi?” e lui conclude “Il solito, la vita”.  Dialoghi centellinati, essenziali, formato 4:3, in bianco e nero, con una fotografia perfetta del neofita Lukasz Zal: nessun estetismo gratuito ma una bellezza dirompente tra primi piani con inquadrature particolarissime e campi lunghi che cesellano l’ambiente invernale, descrizione sapiente dell’atmosfera interiore. 


Il regista, Pawel Pawlikowski, polacco trapiantato a Londra come la sua sceneggiatrice Rebecca Lenkiewicz, qui è un po’ Bergmaniano (il volto di Ida del resto ricorda le saghe medioevali nordiche) e persino un po’ felliniano nella parte musicale del film. 




E la musica è protagonista, con fraseggi e riferimenti jazzistici di classe come Naima di John Coltraine al sax, con la partecipazione di Joanna Kulig, qui cantante, attrice eccellente con Pawlikowski in La Femme du 5ème (The Woman in the Fifth) del 2011. L’inquadratura finale: piano medio, Ida cammina verso la camera che indietreggia alla stessa velocità mentre le auto corrono nel senso contrario. Un gioiello raro da non perdere. Mi raccomando, non doppiato ma in polacco con sottotitoli!


 


Presentazione di Roby Noris a In Onda Con Voi Video di TeleTicino il 28 maggio 2014 (8min)


Giornale del Popolo 31 maggio 2014






giovedì 15 maggio 2014

Nessun rimpianto

Nessun rimpianto, per una società suicida (15.5.2014)

LOVELIFENOREGRETS 
"LOVE LIFE – nessun rimpianto" la nuova campagna contro l'HIV promossa dall'Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP), insieme ad Aiuto Aids Svizzero e SALUTE SESSUALE Svizzera. Al centro vi è il manifesto LOVE LIFE con le tre affermazioni «Amo la mia vita. Perché me lo merito», «Amo il mio corpo. Per questo lo proteggo» e «Non ho nessun rimpianto. E faccio di tutto per riuscirci».





La campagna propone immagini di sesso "esplicito" che dovrebbero, secondo i promotori, "far capire di cosa si stIa parlando". E la novità è il coinvolgimento della popolazione persino nel poter diventare protagonisti delle immagini del far sesso. Naturalmente  "con responsabilità" che significa solo "col preservativo". I media ne hanno parlato un po' plaudendo naturalmente alla bontà e all'importanza della campagna accettata positivamente da tutti salvo qualche frangia di "benpensanti" che reagisce alle immagini. Anche se qualche voce fuori dal coro c'è, come il GdP del 13 maggio 2014.


La novità quindi è la rappresentazione del fare sesso fra persone normali, "più vero del vero", naturalmente con tutte le opzioni che ormai mettono quasi in minoranza gli eterosessuali tradizionali.

Le immagini quindi sono oggetto di discussione fra la maggioranza che le trova normalissime e una minoranza che osa reagire alla rappresentazione esplicita del sesso fatta da un ufficio federale pagato dalle tasse di tutti.
Personalmente, essendo appassionato di cinema, sono abituato ormai da anni alla rappresentazione cinematografica del sesso sempre più esplicito e senza veli, che di anno in anno supera gli ultimi tabù legati ai centimetri di pelle e di genitali mostrati, con tutte le varianti più o meno erotiche, di buon gusto, di classe e di espressione artistica. Complessivamente potrei dire che sono pochi i registi capaci di rappresentare il sesso con maestria, classe, erotismo ed eleganza, e questi non sono certo fra i realizzatori della campagna svizzera anti AIDS. Ma il cinema è una scelta, e non viene rovesciato indiscriminatamente addosso a tutta la popolazione, bambini compresi, quindi in questo è più che comprensibile l'indignazione di chi reagisce alle immagini diffuse dappertutto di questa campagna.
Ma il problema più grave non sta nelle immagini.

Sono convinto invece che il vero guaio sia l'ideologia veicolata ormai da anni in questa campagna anti AIDS ben sintetizzata dallo slogan di questa ultima ondata 2014 "NESSUN RIMPIANTO". Lo slogan "nessun rimpianto" nasce da un sondaggio in cui 1/5 mi pare degli intervistati ha dichiarato di avere il rimpianto di non aver usato il preservativo. La questione della relazione sessuale è totalmente banalizzata perché ridotta al problema dell'evitare il contagio, per altro questione facilmente condivisibile da chiunque. Ma sul tema della sessualità la grande "conquista" è aver relegato qualunque questione sulla natura della relazione e sulle sue implicazioni sociali a un fatto privato che non interessa più nessuno. Non c'è più niente da dire o da dibattere perché l'ideologia vincente proposta e riproposta è semplicemente quella riassumibile in "riguardo al sesso non c'è più nessun problema, purché ci si protegga".

Credo che in una prospettiva sociologica, qui non c'entra la morale, il pensiero veicolato da questo genere di campagne prepara un tipo di società sostanzialmente suicida. Provo a spiegare perché.

Nella storia fino ai tempi più recenti, i modelli sociali erano costruiti su strutture relazionali che garantivano sia il proseguimento della specie, sia l'assetto sociale, più o meno stabile. La famiglia ha sempre giocato un ruolo funzionale all'equilibrio dei gruppi sia tribali sia più sofisticati come le società moderne, sia in occidente che in oriente. In queste realtà la relazione sessuale degli individui era di norma conseguente e non precedente alla relazione sociale per cui la relazione sessuale fra gli individui era una componente fondamentale della relazione sociale.
Attualmente invece il pensiero dominante del "massimo godimento a qualunque condizione" scardina completamente la possibilità che la relazione sessuale sia l'elemento portante di una relazione famigliare stabile. Anzi la relazione sociale diventa secondaria e semmai subordinata all'appagamento incondizionato di relazioni sessuali completamente slegate da modelli sociali funzionali a un assetto globale che sia vivibile ed equilibrato per tutti. Non mitizzo nulla del passato e anzi sono felice di vivere in un'epoca che permette di rimettere in discussione modelli sociali dove l'individuo e la sua coscienza individuale contavano ben poco, e ancor meno se si era nati donne, ma so che il modello caotico che soggiace all'idea di una sessualità solo regolata dai parametri del piacere individuale non funziona per niente e crea solo un caos in cui alcuni vengono emarginati ancor più di prima e sono schiacciati ancora più di prima in nome della presunta libertà dei vincenti, belli, giovani, che hanno il potere.
Gli umani in prevalenza tendono a esercitare pochissimo e maldestramente la responsabilità individuale, e il libero arbitrio si manifesta purtroppo con ben poca autocoscienza. Statisticamente sono sempre pochi coloro che pensano davvero in prospettiva, esercitando una responsabilità personale in nome del bene comune, e ovviamente raramente sono ascoltati e diventano leader e opinionleader. 

Le diverse espressioni religiose che oggi spesso ci fanno inorridire per il loro oscurantismo e le loro visioni arcaiche, credo abbiano tentato in modo spesso goffo e approssimativo di salvare il salvabile, con una specie umana incapace di pensiero sano. E nella prospettiva di limitare i danni credo abbiano sempre cercato di mettere sotto controllo, quindi sotto norme, la relazione sessuale degli individui. I risultati non sono esaltanti ma probabilmente migliori del modello caotico e senza prospettive che la società del preservativo sta tragicamente costruendo tassello su tassello. La banalizzazione del sesso infatti porta ad una difficoltà enorme nell'immaginare strutture sociali e famigliari stabili e dal profilo individuale rende precario l'equilibrio della sessualità fondata sul desiderio e non sull'appagamento incondizionato di qualsiasi pulsione. 

Una relazione è stabile, sana e appagante, e quindi funziona, se reciprocamente anche dopo molti anni, nell'altro si continua a scoprire riflessi della sua unicità, ne si è affascinati e da questa continua scoperta si genera il desiderio. Desiderio non solo di natura spirituale e platonica, intendiamoci, ma desiderio relativo all'altra persona nel suo insieme fisico e spirituale che risulta essere affascinante. Queste relazioni nascono da una alchimia fra esperienza e percorsi pedagogici, fra fascino e scoperta del "bello" e fatica per rendere il proprio pensiero più efficace. Da questo quadro nasce una possibilità di relazione sessuale costruttiva per un modello sociale che ha prospettive.

Altrimenti non c'è futuro. È una società suicida perché caotica e instabile, sempre più in crisi di valori di riferimento, dove tutto è opinabile, dove l'improbabile struttura sociale sempre più  precaria nella sua impostazione è votata alla disgregazione o all'implosione. Una società dove si può inorridire di fronte a un reportage sul sexting che coinvolge in Ticino persino ragazzine di 11 anni (Falò RSI del 15.5.2014) senza capire che la banalizzazione del sesso fatta sistematicamente anno dopo anno da campagne di "sensibilizzazione" come quella anti AIDS, hanno poi derive di tutti i generi. Insomma il sexting dilagante ha a che vedere con l'incoscienza della campagna Love-life, o meglio con l'ideologia che sta dietro. In questo senso società suicida che sega il ramo su cui è appoggiata senza neppure accorgersene.

Poi magari succederà qualche guaio che azzererà tutto e si ricomincerà da capo come nel genere cinematografico catastrofista del "dopo bomba". Ma questa ipotesi non mi piace per niente.



mercoledì 7 maggio 2014

#BringBackOurGirls

#BringBackOurGirls (7.5.2014)



In Nigeria rapiscono quasi 300 ragazzine, studentesse, tre settimane fa e la popolazione si mobilita accusando il governo di non fare nulla per liberarle. Il gruppo che le ha caricate su camion e fatte sparire nella giungla è un gruppo islamico, Boko Haram, che lotta contro "l'istruzione occidentale" (significato del nome del gruppo) e già in passato ha fatto irruzione in centri scolastici mandando a casa le ragazze intimando loro di smettere di studiare e di sposarsi.Fra i tanti articoli di quotidiani autorevoli uno del NYTimes e uno del The Guardian




Ciò che mi ha colpito è la poca risonanza, se non nulla, che questa notizia abbia avuto in area italofona rispetto a quella notevolissima avuta in area anglofona. Per tre settimane qualche colonna qua e la' ma davvero poco spazio e nessuna foto. Lo slogan twittato e ritwittato #BringbBackOurGirls con tantissime foto di donne che brandiscono cartelli non ha eco sui media italiani e ticinesi fino a maggio. La CNN fin dall'inizio del rapimento ha continuato a passare servizi e appelli vari.


È la tragedia di una azione repressiva nei confronti di ragazzine ritenute colpevoli di avere accesso alla cultura "occidentale", che in quanto donne dovrebbero invece vivere la sottomissione agli uomini nella completa ignoranza. Una logica stravincente in molti paesi del mondo anche se normalmente non si esprime pubblicamente con gesti violenti intrisi di fanatismo. Un articolo interessante sul The Wall Street Journal sulla questione culturale e ideologica. E bisogna dire che questa logica demenziale parte da un'intuizione cinicamente esatta: solo costringendo le persone a rimanere nell'ignoranza è possibile mantenerle sottomesse e controllarle. I ricchi medio orientali infatti che mandano le figlie a studiare in occidente stanno minando il loro sistema maschilista che si regge solo sull'ignoranza, e quelle figlie che forse non faranno la rivoluzione direttamente, cresceranno a loro volta delle figlie che invece la faranno.


Ma al di là delle analisi resta il fatto drammatico della cronaca con la prospettiva della vendita delle ragazze a 8$ l'una come è stato annunciato, eppure niente foto in prima pagina sui quotidiani italiani e tantomeno quelli nostrani. Forse non c'è nessuna scelta e magari salterà fuori che le grandi testate non si erano accorte che quel rapimento fosse una notizia spendibile sul mercato italiano e di seguito a ruota tutti i media più piccoli come i nostri.
E c'è chi malignamente pensa che gli americani siano sensibili al rapimento e disponibili ad intervenire direttamente perché in Nigeria c'è il petrolio. Io voglio sperare invece che i media americani abbiano colto la tragedia nel suo significato per tutta la cultura occidentale, per lo schiaffo a tutti quei valori che sono alla base delle società avanzate.

Una nota di colore: l'azione lanciata su Twitter #BringBackOurGirls ha utilizzato foto di ragazze come quella qui sopra che non hanno nulla a che vedere col rapimento in Nigeria,  perché sono state scattate da Ami Vitale in Guinea-Bissau nel 2000 (nessuno le ha chiesto di utilizzarle) come risulta dall'articolo del NYTimes