L'operatore sociale a Caritas Ticino
Il testo dell'intervento.
Per far capire la
mia esperienza di operatore sociale di CATI, evidentemente con un ruolo un po’
speciale ma pur sempre un operatore sociale, devo fare una sorta di premessa un
po’ biografica, non solo professionale.
Ho vissuto il 68 con intensità. Nel 68 ho conosciuto colei che poi tre anni dopo avrei sposato e abbiamo festeggiato i cinquant'anni di matrimonio l'anno scorso. Abbiamo vissuto intensamente questa rivoluzione culturale, per me anche musicale, per cui ho suonato per anni in band e mi sono occupato di musica, di arte con una grande curiosità, sognando come molti in quegli anni, grandi cambiamenti, grandi rivoluzioni. Avevo i capelli lunghi in un periodo in cui non erano bene accetti ad esempio quando passavi una frontiera. Ho vissuto un periodo molto particolare, molto interessante.
Preparavo gli esami di maturità federale, quindi studiavo da solo e durante una prima parte di esami a Lugano, uno che li faceva con me mi ha invitato a partecipare a un gruppo che faceva un’esperienza religiosa, sarebbe diventato CL. Con Dani abbiamo cominciato a partecipare a questi incontri un po’ strani, dove c'era una sorta di fascino per il modo di stare assieme di questa gente che ci sembrava fosse tutto sommato più felice di quella che frequentavamo prima. Credo che sia stato questo l'elemento determinante del nostro interesse per quell'ambiente.
Lì abbiamo
conosciuto don Luigi Giussani, una figura molto particolare e davvero
straordinaria. Un pensatore, che ogni anno veniva a fare gli esercizi
spirituali, cioè un paio di giorni di incontri. E peraltro sono 100 anni dalla
nascita di Giussani* e CATI, col suo settore informazione, ha fatto la diretta
streaming del convegno qui a Lugano.
Avevamo conosciuto
anche Eugenio Corecco, professore di diritto canonico, che è diventato
mondialmente un'autorità in materia. Conduceva questa comunità ed è diventato
nostra guida spirituale. Ma è anche la persona che, da vescovo, ha determinato
la svolta importante di Caritas Ticino negli anni 90.
La particolarità
che ci colpiva di quell’esperienza religiosa era la radicalità e la passione
con cui vivere e stare assieme agli altri.
Devo dire che nel fermento rivoluzionario di quegli anni, il desiderio di vivere intensamente le cose era davvero molto grande. Quindi abbiamo fatto esperienze molto belle e molto affascinanti. Abbiamo studiato a Friborgo, dove appunto c'era Eugenio Corecco che è diventato anche un grande amico. Ci ha sposato lui a Friborgo, poi siamo andati a Parigi a studiare, eccetera.
Ma uno dei fatti
più importanti della nostra vita che ha marcato poi molto il mio modo di
concepire il lavoro sociale è stato il cominciare a fare delle vacanze con
delle persone handicappate, le cosiddette colonie integrate e quando poi
abbiamo avuto dei figli, li portavamo in colonia, anche neonati. Abbiamo fatto
colonie per parecchi anni. Del resto abbiamo degli amici che continuano ancora
adesso, cioè i figli di quelli che avevano cominciato.
Una esperienza di
incontro con persone che avevano problemi seri, di tipo fisico ma anche
psichico, vivendo delle vacanze, senza pretese terapeutiche, nient’altro che
stare assieme, vivere assieme come della gente normale che fa le vacanze. È
stata un'esperienza formativa veramente molto importante.
Ma l'elemento credo
straordinario è stato l'insegnamento di Eugenio Corecco che, quando poteva,
partecipava a questi momenti di vacanza; lui ci ha sostanzialmente insegnato e
aiutato a guardare le persone portatrici di handicap in un modo completamente
diverso rispetto al pensiero dominante.
Lui diceva, da
persona profondamente religiosa, che nel volto di queste persone, un volto
segnato dalla malattia e dalla sofferenza, noi dovevamo vedere Gesù Cristo.
Questa è la questione nodale. Perché? Perché quelle persone segnate da un
handicap avevano una dignità grande e non erano definite dall'handicap.
È quello che di fatto c'è scritto sulla facciata del Catishop di Pregassona: “la persona è molto più del suo bisogno.”
Questa è la questione fondamentale. E questo è uno sguardo sull'altro che non colpisce solo chi è credente. Cioè non c'è bisogno di avere la fede e di essere praticanti per capire che questa è una cosa straordinaria, nel senso che il richiamo di Corecco a guardare questi volti sofferenti come se fossero Gesù Cristo, tradotto in termini laici, vuol dire guardare quelle persone non definendole per quello che non hanno, per la loro mancanza, per il deficit, ma definendole per quello che sono profondamente, per la loro dignità, cioè riconoscendo a queste persone una dignità intrinseca.
Questo diciamo che
non succede tanto facilmente. Credo che abbiamo spesso assistito a forme di
“angelismo” nei confronti delle persone handicappate, o nei confronti delle
persone che hanno un problema, nel senso di guardarle privandole di fatto della
loro dignità profonda, perché si ritiene che non siano responsabili di nulla. È
una cosa sottile, è una sorta di malattia sottile che si manifesta in forme
anche innocenti nel linguaggio.
Pensate al fatto
che molto spesso, a una persona con un handicap, o a una persona anziana un po’
debilitata, si dà del tu, pur non essendo suoi amici. E il linguaggio di fatto
tradisce un pregiudizio e un giudizio. Chiedete a Dante quante volte
probabilmente è stato obbligato a attraversare una strada che non voleva
attraversare, oppure quante persone che non lo conoscono si permettono di
dargli del tu, perché siccome non vede, si crede che probabilmente debba essere
anche scemo!
In proposito un
aneddoto del mio amico Giacomo Contri psicoanalista milanese morto a gennaio. Molti anni fa, a un incontro di operatori
sociali che si occupavano di persone handicappate, li aveva provocati, dicendo
che “Anche gli handicappati vanno all'inferno.”
Tutti sono saltati per aria, ma a me era piaciuta da morire perché nella sua provocazione c’era l'affermazione della dignità della persona handicappata al punto tale da riconoscergli, la possibilità di scelta: anche quando l’handicap è grave c'è un angolo di libertà dove la persona può scegliere. Evidentemente se gli si concede di scegliere, vuol dire che gli si può permettere di scegliere anche di comportarsi male e in questo senso “la persona handicappata può andare all'inferno”. C'è di fatto un riconoscimento per me bellissimo della libertà e della dignità personale.
Nell’’80 sono
arrivato a CATI per l’accoglienza dei boat people vietnamiti, erano i profughi
vietnamiti che scappavano dal Vietnam, ne sono scappati 1.000.000 sulle barche
e metà ha perso la vita in mare o coi pirati. Dovevo occuparmi
soprattutto dell’animazione delle comunità di accoglienza essenzialmente
parrocchiali. Ed era la prima volta che su larga scala si usava questo metodo.
Non si trattava prevalentemente di un intervento diretto con i profughi, ma di un lavoro mediato di animazione delle comunità che maturavano un cammino di accoglienza dei profughi. Ed è stata un'esperienza davvero formativa e molto interessante per me perché mi ha permesso di approfondire e di mettere a tema tutta una serie di questioni che fanno parte del welfare, cioè dello stato sociale e quindi dell'impostazione del lavoro sociale. Diciamo che questo impegno è stato una sorta di lavoro preparatorio che mi ha permesso poi negli anni 90, in particolare nel 92, quando c'è stato il 50º di CATI, di intuire la genialità del pensiero del vescovo Eugenio Corecco.
Quindi una svolta per CATI che poi negli anni successivi abbiamo tradotto anche in termini laici, con personaggi che ci hanno aiutato con i loro scritti come Muhammad Yunus, Amartya Sen e C.K. Prahalad. Personaggi che affermavano che nella persona c'erano delle risorse. Era sostanzialmente quello che ci diceva in termini religiosi Corecco; in termini laici voleva dire scoprire le risorse che ci sono in tutti. Ma affermare che in tutti ci sono sempre delle risorse è qualcosa di assolutamente rivoluzionario che ha delle conseguenze politiche, di politica sociale, e si contrappone completamente a una concezione assistenziale del rapporto con chi ha bisogno.
La questione nodale
è questa: credere che le persone hanno sempre delle risorse, magari nascoste,
magari difficili da tirar fuori. Vuol dire che c'è la possibilità di aiutare
queste persone a diventare dei soggetti attivi e non essere degli oggetti
passivi che ricevono da altri gli aiuti. Questo è il cambiamento sostanziale
che Caritas Ticino ha fatto, passando da un'attenzione al “bisogno” dove tutte
le organizzazioni socio caritative focalizzano la loro mission, cambiando
l'asse e il focus sulle risorse delle persone. Dal bisogno alle risorse.
Allora aiutare la persona bisognosa a scoprire e attivare le proprie risorse, sono convinto sia il compito principale dell'operatore sociale di una Caritas come CATI. Poi naturalmente bisogna anche fare le lotte politiche contro le ingiustizie che ci sono, contro gli errori di un sistema di welfare che ha dei buchi e delle falle. Bisogna farle davvero queste lotte politiche. Ma il compito principale, il compito primo dell'operatore, credo sia proprio quello di aiutare le persone a scoprire e attivare le proprie risorse.
È chiaro che bisogna distinguere il momento dell'emergenza, quello che è il momento dove bisogna assolutamente intervenire subito. E questo sia che si tratti di una persona singola, sia che si tratti di un gruppo. Passato questo momento iniziale di emergenza, bisogna sempre, e sottolineo sempre, tornare alla questione delle risorse che le persone hanno, aiutandole ad attivarle, aiutandole a scoprirle.
Questa idea si contrappone alla concezione assistenziale ancora oggi diffusa prevalentemente in area cattolica e di sinistra, perché se tutti sono portatori di risorse significa che possono diventare soggetti attivi e non essere ridotti a oggetti passivi che ricevono aiuto perché ritenuti vittime incapaci di essere attori della propria rinascita. Ed è proprio questo non riconoscimento delle risorse che impedisce alla persona bisognosa di uscire dal limbo dell’impotenza. Molte forme di aiuto che hanno il tarlo dell’assistenzialismo, spesso la distribuzione di soldi, impediscono alle persone di attivarsi e scoprire le proprie risorse.
Quando si ha questo sguardo come operatori sociali, si capisce che non è possibile sostituirsi a nessuno. Non si è onnipotenti e non ci si può sostituire a nessuno. Quindi il lavoro dell'operatore sociale è in fondo un lavoro sempre un passo indietro. Questo l'ho sentito in modo molto profondo nella mia esperienza, perché molto spesso ciò vuol dire accettare la libertà dell'altro, che pensa male e pensa sbagliato, che fa scelte sbagliate, che avranno conseguenze. L'operatore deve fare di tutto per convincere, per far capire a quella persona che cosa potrebbe cambiarle la vita, ma mai sostituirsi a lei, mai entrare in una sorta di tentativo risolutivo dall’esterno.
Nel corso degli
anni abbiamo coniato uno slogan che riassume tutta l’impostazione di questo
pensiero sociale: Dalla povertà si esce solo diventando soggetti economici
produttivi.
E si può fare anche
se a volte è faticosissimo. Scoprire le risorse delle persone è una cosa spesso
davvero molto difficile. Ma si può fare.
E si possono vivere delle esperienze straordinarie quando le persone hanno compreso che possono diventare davvero gli attori della propria rinascita.
Quindi la mia esperienza di operatore sociale è stata bellissima. E auguro anche a voi di andare un giorno in pensione riguardando la vostra vita, dicendovi che tutto sommato avete contribuito a costruire un pezzettino di mondo migliore.
*Un mio ricordo di don Luigi Giussani:
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