mercoledì 28 settembre 2022

Formazione dell'equipe di Caritas Ticino

 L'operatore sociale a Caritas Ticino

Sono stato invitato a un incontro di formazione dell'équipe di Caritas Ticino il 22 settembre 2022 sul tema "L'operatore sociale di Caritas Ticino" con Graziano Martignoni. Mi è stata chiesta una testimonianza personale. Eccola


Il testo dell'intervento.

Per far capire la mia esperienza di operatore sociale di CATI, evidentemente con un ruolo un po’ speciale ma pur sempre un operatore sociale, devo fare una sorta di premessa un po’ biografica, non solo professionale.

Ho vissuto il 68 con intensità. Nel 68 ho conosciuto colei che poi tre anni dopo avrei sposato e abbiamo festeggiato i cinquant'anni di matrimonio l'anno scorso. Abbiamo vissuto intensamente questa rivoluzione culturale, per me anche musicale, per cui ho suonato per anni in band e mi sono occupato di musica, di arte con una grande curiosità, sognando come molti in quegli anni, grandi cambiamenti, grandi rivoluzioni. Avevo i capelli lunghi in un periodo in cui non erano bene accetti ad esempio quando passavi una frontiera. Ho vissuto un periodo molto particolare, molto interessante.

Preparavo gli esami di maturità federale, quindi studiavo da solo e durante una prima parte di esami a Lugano, uno che li faceva con me mi ha invitato a partecipare a un gruppo che faceva un’esperienza religiosa, sarebbe diventato CL. Con Dani abbiamo cominciato a partecipare a questi incontri un po’ strani, dove c'era una sorta di fascino per il modo di stare assieme di questa gente che ci sembrava fosse tutto sommato più felice di quella che frequentavamo prima. Credo che sia stato questo l'elemento determinante del nostro interesse per quell'ambiente.

Lì abbiamo conosciuto don Luigi Giussani, una figura molto particolare e davvero straordinaria. Un pensatore, che ogni anno veniva a fare gli esercizi spirituali, cioè un paio di giorni di incontri. E peraltro sono 100 anni dalla nascita di Giussani* e CATI, col suo settore informazione, ha fatto la diretta streaming del convegno qui a Lugano.

Avevamo conosciuto anche Eugenio Corecco, professore di diritto canonico, che è diventato mondialmente un'autorità in materia. Conduceva questa comunità ed è diventato nostra guida spirituale. Ma è anche la persona che, da vescovo, ha determinato la svolta importante di Caritas Ticino negli anni 90.

La particolarità che ci colpiva di quell’esperienza religiosa era la radicalità e la passione con cui vivere e stare assieme agli altri.

Devo dire che nel fermento rivoluzionario di quegli anni, il desiderio di vivere intensamente le cose era davvero molto grande. Quindi abbiamo fatto esperienze molto belle e molto affascinanti. Abbiamo studiato a Friborgo, dove appunto c'era Eugenio Corecco che è diventato anche un grande amico. Ci ha sposato lui a Friborgo, poi siamo andati a Parigi a studiare, eccetera. 

Ma uno dei fatti più importanti della nostra vita che ha marcato poi molto il mio modo di concepire il lavoro sociale è stato il cominciare a fare delle vacanze con delle persone handicappate, le cosiddette colonie integrate e quando poi abbiamo avuto dei figli, li portavamo in colonia, anche neonati. Abbiamo fatto colonie per parecchi anni. Del resto abbiamo degli amici che continuano ancora adesso, cioè i figli di quelli che avevano cominciato.

Una esperienza di incontro con persone che avevano problemi seri, di tipo fisico ma anche psichico, vivendo delle vacanze, senza pretese terapeutiche, nient’altro che stare assieme, vivere assieme come della gente normale che fa le vacanze. È stata un'esperienza formativa veramente molto importante.

Ma l'elemento credo straordinario è stato l'insegnamento di Eugenio Corecco che, quando poteva, partecipava a questi momenti di vacanza; lui ci ha sostanzialmente insegnato e aiutato a guardare le persone portatrici di handicap in un modo completamente diverso rispetto al pensiero dominante.

Lui diceva, da persona profondamente religiosa, che nel volto di queste persone, un volto segnato dalla malattia e dalla sofferenza, noi dovevamo vedere Gesù Cristo. Questa è la questione nodale. Perché? Perché quelle persone segnate da un handicap avevano una dignità grande e non erano definite dall'handicap.

È quello che di fatto c'è scritto sulla facciata del Catishop di Pregassona: “la persona è molto più del suo bisogno.”

Questa è la questione fondamentale. E questo è uno sguardo sull'altro che non colpisce solo chi è credente. Cioè non c'è bisogno di avere la fede e di essere praticanti per capire che questa è una cosa straordinaria, nel senso che il richiamo di Corecco a guardare questi volti sofferenti come se fossero Gesù Cristo, tradotto in termini laici, vuol dire guardare quelle persone non definendole per quello che non hanno, per la loro mancanza, per il deficit, ma definendole per quello che sono profondamente, per la loro dignità, cioè riconoscendo a queste persone una dignità intrinseca. 

Questo diciamo che non succede tanto facilmente. Credo che abbiamo spesso assistito a forme di “angelismo” nei confronti delle persone handicappate, o nei confronti delle persone che hanno un problema, nel senso di guardarle privandole di fatto della loro dignità profonda, perché si ritiene che non siano responsabili di nulla. È una cosa sottile, è una sorta di malattia sottile che si manifesta in forme anche innocenti nel linguaggio.

Pensate al fatto che molto spesso, a una persona con un handicap, o a una persona anziana un po’ debilitata, si dà del tu, pur non essendo suoi amici. E il linguaggio di fatto tradisce un pregiudizio e un giudizio. Chiedete a Dante quante volte probabilmente è stato obbligato a attraversare una strada che non voleva attraversare, oppure quante persone che non lo conoscono si permettono di dargli del tu, perché siccome non vede, si crede che probabilmente debba essere anche scemo!

In proposito un aneddoto del mio amico Giacomo Contri psicoanalista milanese morto a gennaio.  Molti anni fa, a un incontro di operatori sociali che si occupavano di persone handicappate, li aveva provocati, dicendo che “Anche gli handicappati vanno all'inferno.”

Tutti sono saltati per aria, ma a me era piaciuta da morire perché nella sua provocazione c’era l'affermazione della dignità della persona handicappata al punto tale da riconoscergli, la possibilità di scelta: anche quando l’handicap è grave c'è un angolo di libertà dove la persona può scegliere. Evidentemente se gli si concede di scegliere, vuol dire che gli si può permettere di scegliere anche di comportarsi male e in questo senso “la persona handicappata può andare all'inferno”. C'è di fatto un riconoscimento per me bellissimo della libertà e della dignità personale.

Nell’’80 sono arrivato a CATI per l’accoglienza dei boat people vietnamiti, erano i profughi vietnamiti che scappavano dal Vietnam, ne sono scappati 1.000.000 sulle barche e metà ha perso la vita in mare o coi pirati. Dovevo occuparmi soprattutto dell’animazione delle comunità di accoglienza essenzialmente parrocchiali. Ed era la prima volta che su larga scala si usava questo metodo.

Non si trattava prevalentemente di un intervento diretto con i profughi, ma di un lavoro mediato di animazione delle comunità che maturavano un cammino di accoglienza dei profughi. Ed è stata un'esperienza davvero formativa e molto interessante per me perché mi ha permesso di approfondire e di mettere a tema tutta una serie di questioni che fanno parte del welfare, cioè dello stato sociale e quindi dell'impostazione del lavoro sociale. Diciamo che questo impegno è stato una sorta di lavoro preparatorio che mi ha permesso poi negli anni 90, in particolare nel 92, quando c'è stato il 50º di CATI, di intuire la genialità del pensiero del vescovo Eugenio Corecco. 

Quindi una svolta per CATI che poi negli anni successivi abbiamo tradotto anche in termini laici, con personaggi che ci hanno aiutato con i loro scritti come Muhammad Yunus, Amartya Sen e C.K. Prahalad. Personaggi che affermavano che nella persona c'erano delle risorse. Era sostanzialmente quello che ci diceva in termini religiosi Corecco; in termini laici voleva dire scoprire le risorse che ci sono in tutti. Ma affermare che in tutti ci sono sempre delle risorse è qualcosa di assolutamente rivoluzionario che ha delle conseguenze politiche, di politica sociale, e si contrappone completamente a una concezione assistenziale del rapporto con chi ha bisogno.

La questione nodale è questa: credere che le persone hanno sempre delle risorse, magari nascoste, magari difficili da tirar fuori. Vuol dire che c'è la possibilità di aiutare queste persone a diventare dei soggetti attivi e non essere degli oggetti passivi che ricevono da altri gli aiuti. Questo è il cambiamento sostanziale che Caritas Ticino ha fatto, passando da un'attenzione al “bisogno” dove tutte le organizzazioni socio caritative focalizzano la loro mission, cambiando l'asse e il focus sulle risorse delle persone. Dal bisogno alle risorse.

Allora aiutare la persona bisognosa a scoprire e attivare le proprie risorse, sono convinto sia il compito principale dell'operatore sociale di una Caritas come CATI. Poi naturalmente bisogna anche fare le lotte politiche contro le ingiustizie che ci sono, contro gli errori di un sistema di welfare che ha dei buchi e delle falle. Bisogna farle davvero queste lotte politiche. Ma il compito principale, il compito primo dell'operatore, credo sia proprio quello di aiutare le persone a scoprire e attivare le proprie risorse.

È chiaro che bisogna distinguere il momento dell'emergenza, quello che è il momento dove bisogna assolutamente intervenire subito. E questo sia che si tratti di una persona singola, sia che si tratti di un gruppo. Passato questo momento iniziale di emergenza, bisogna sempre, e sottolineo sempre, tornare alla questione delle risorse che le persone hanno, aiutandole ad attivarle, aiutandole a scoprirle.

Questa idea si contrappone alla concezione assistenziale ancora oggi diffusa prevalentemente in area cattolica e di sinistra, perché se tutti sono portatori di risorse significa che possono diventare soggetti attivi e non essere ridotti a oggetti passivi che ricevono aiuto perché ritenuti vittime incapaci di essere attori della propria rinascita. Ed è proprio questo non riconoscimento delle risorse che impedisce alla persona bisognosa di uscire dal limbo dell’impotenza. Molte forme di aiuto che hanno il tarlo dell’assistenzialismo, spesso la distribuzione di soldi, impediscono alle persone di attivarsi e scoprire le proprie risorse.

Quando si ha questo sguardo come operatori sociali, si capisce che non è possibile sostituirsi a nessuno. Non si è onnipotenti e non ci si può sostituire a nessuno. Quindi il lavoro dell'operatore sociale è in fondo un lavoro sempre un passo indietro. Questo l'ho sentito in modo molto profondo nella mia esperienza, perché molto spesso ciò vuol dire accettare la libertà dell'altro, che pensa male e pensa sbagliato, che fa scelte sbagliate, che avranno conseguenze. L'operatore deve fare di tutto per convincere, per far capire a quella persona che cosa potrebbe cambiarle la vita, ma mai sostituirsi a lei, mai entrare in una sorta di tentativo risolutivo dall’esterno.

E questo è il guaio continuo di molti operatori sociali, e di molte organizzazioni socio-caritative. A CATI ad esempio noi non abbiamo le “épiceries”, cioè le banche alimentari, a Caritas Ticino ci siamo sempre opposti quando in tutta la Svizzera tutte le Caritas le hanno. Il motivo è preciso: crediamo che queste forme assistenzialiste di aiuto limitino le possibilità di diventare soggetti attivi.

Nel corso degli anni abbiamo coniato uno slogan che riassume tutta l’impostazione di questo pensiero sociale: Dalla povertà si esce solo diventando soggetti economici produttivi.

Le conseguenze di questo slogan sono enormi e per me sono state una lotta controcorrente continua; mi sono sentito dire molte , soprattutto in area cattolica e di sinistra, “hai ragione ma bisogna fare delle eccezioni”. Ho sempre risposto che non ci sono eccezioni a un pensiero sano.

E si può fare anche se a volte è faticosissimo. Scoprire le risorse delle persone è una cosa spesso davvero molto difficile. Ma si può fare.

E si possono vivere delle esperienze straordinarie quando le persone hanno compreso che possono diventare davvero gli attori della propria rinascita.

È stato estremamente gratificante vivere questi incontri e  queste cose con passione, e raccontarle cercando di spiegarle ad esempio con migliaia di video su youtube, raccontando esperienze, come abbiamo fatto con Graziano Martignoni, che abbiamo rimpicciolito mettendolo in video in un modellino di casetta che un contadino di Berna aveva costruito molti anni fa, o in altre ambientazioni strane e divertenti. Ma tutto questo per affermare che la persona che ha bisogno di aiuto ha una dignità straordinaria che va scoperta, perché possa sempre e comunque rinascere.

Quindi la mia esperienza di operatore sociale è stata bellissima. E auguro anche a voi di andare un giorno in pensione riguardando la vostra vita, dicendovi che tutto sommato avete contribuito a costruire un pezzettino di mondo migliore.


*Un mio ricordo di don Luigi Giussani:



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