giovedì 19 novembre 2015

Mom is dead, in Paris

Mom is dead, in Paris
Nella mia agenda su Google oggi in alto c'è la scritta in rosso "Mom is dead", la ricorrenza della data della morte di mia madre, 6 anni fa, che ho ricordato su questo blog nel 2013. Ho aggiunto nel titolo "in Paris" pensando a quei bambini che hanno perso la mamma nella strage di Parigi del 13/11.

Parigi 13/11

Ho appena letto la lettera, quasi virale sul web, di Antoine Leiris che ha perso la moglie al Bataclan a Parigi nella strage di venerdì scorso 13 novembre, e ha postato su Facebook (200'000 condivisioni) il 16 Novembre alle 04:18 questo testo: ·


“Vous n’aurez pas ma haine”
Vendredi soir vous avez volé la vie d’un être d’exception, l’amour de ma vie, la mère de mon fils mais vous n’aurez pas ma haine. Je ne sais pas qui vous êtes et je ne veux pas le savoir, vous êtes des âmes mortes. Si ce Dieu pour lequel vous tuez aveuglément nous a fait à son image, chaque balle dans le corps de ma femme aura été une blessure dans son coeur.
Alors non je ne vous ferai pas ce cadeau de vous haïr. Vous l’avez bien cherché pourtant mais répondre à la haine par la colère ce serait céder à la même ignorance qui a fait de vous ce que vous êtes. Vous voulez que j’ai peur, que je regarde mes concitoyens avec un oeil méfiant, que je sacrifie ma liberté pour la sécurité. Perdu. Même joueur joue encore.
Je l’ai vue ce matin. Enfin, après des nuits et des jours d’attente. Elle était aussi belle que lorsqu’elle est partie ce vendredi soir, aussi belle que lorsque j’en suis tombé éperdument amoureux il y a plus de 12 ans. Bien sûr je suis dévasté par le chagrin, je vous concède cette petite victoire, mais elle sera de courte durée. Je sais qu’elle nous accompagnera chaque jour et que nous nous retrouverons dans ce paradis des âmes libres auquel vous n’aurez jamais accès.
Nous sommes deux, mon fils et moi, mais nous sommes plus fort que toutes les armées du monde. Je n’ai d’ailleurs pas plus de temps à vous consacrer, je dois rejoindre Melvil qui se réveille de sa sieste. Il a 17 mois à peine, il va manger son goûter comme tous les jours, puis nous allons jouer comme tous les jours et toute sa vie ce petit garçon vous fera l’affront d’être heureux et libre. Car non, vous n’aurez pas sa haine non plus.



Una pagina da brividi per profondità, per lo sguardo esistenziale, per la carica di speranza,  che mi sembra possa essere dedicata alle mamme che sono morte a Parigi e a quelle che piangono i figli che erano al concerto degli Eagles of Death Metal al Bataclan. La band americana, tornata a casa ha scritto su Facebook fra l'altro: Although bonded in grief with the victims, the fans, the families, the citizens of Paris, and all those affected by terrorism, we are proud to stand together, with our new family, now united by a common goal of love and compassion.  
...siamo fieri di stare assieme, con la nostra nuova famiglia, ora uniti in un obiettivo comune di amore e compassione.

Dal 9/11 al 13/11
Guardo a questa nuova carneficina pensando a quella di 14 anni fa, 9/11 a New York, quando la sorpresa di fronte all'incredibile, di fronte all'impensabile, di fronte alla strage in diretta televisiva, ci aveva spiazzati tutti. Mi aveva segnato profondamente questa tragedia non solo americana ma di tutto il mondo occidentale che si era sentito unito e aveva espresso solidarietà come non mai. Ne avevo parlato in un editoriale  ricordando anche mio padre morto qualche mese prima.

Editoriale di settembre 2001 sulla rivista Caritas Insieme

Abbiamo un 29
In copertina l’autoritratto di Alice, una pittrice portatrice di handicap che comunica in modi diversi da quello verbale a cui siamo abituati. Interrogativi sui modi di comunicare che in questi giorni mi sembrano di attualità per certi versi persino drammatica.
America under attack è il titolo che la CNN ha avuto 24 ore su 24 sullo schermo per tre giorni dopo la tragedia di New York, sostituito poi con american’s new war. Alcuni giorni di immagini incredibili e di continui aggiornamenti scritti e parlati. Se la guerra del golfo era stata mediatizzata con pochissime immagini che sembravano virtuali - qualche puntino bianco su un improbabile sfondo notturno verde - questa volta la realtà ha avuto il sopravvento sull’immaginazione. I crolli di Indipendence Day e di Godzilla o l’Empire che precipita in Armageddon sono stati ampiamente superati dalle immagini televisive in diretta dell’11 settembre. Manatthan, uno degli angoli del mondo più affascinanti dal punto di vista architettonico è stato colpito proprio nel cuore del suo splendore, una follia che ferisce ogni abitante di questo pianeta. Uno scossone per tutti; fino all’11 settembre appalto della finzione del filone cinematografico apocalittico, il mostro è uscito allo scocoperto per una rappresentazione senza precedenti. Il non senso, l’assurdo della morte in diretta secondo scenari nuovi, non più quelli della guerra fra popoli e nazioni ma gruppuscoli che sfidano l’umanità intera, la chiamano a raccolta imponendo lo spettacolo demenziale di morte e distruzione che i satelliti ci hanno permesso di seguire in una arena planetaria gremita all’inverosimile.

Dal profilo della comunicazione mediatica abbiamo infranto nuove frontiere: un aereo dirottato e lanciato contro un grattacielo-simbolo con l’obiettivo preciso di attirare il pubblico del mondo e, 18 minuti dopo, quando metà pianeta era sintonizzato lo spettacolo ha avuto inizio seguendo un copione delirante. “Niente sarà più come prima” hanno dichiarato in molti a New York, ma nemmeno altrove. Le follie di cui la storia dell’umanità è costellata hanno avuto anche punte di efferatezza maggiore ma per quanto riguarda i meccanismi della comunicazione nessuno ha mai potuto neppure lontanamente avvicinarsi o emulare quanto sarebbe avvenuto all’inizio del terzo millennio un 11 settembre qualunque. Soprusi e violenza, guerre e genocidi sono spettacolo quotidiano dei nostri TG ma essere di forza chiamati tutti ad assistere increduli e impotenti a una America under attack non è solo cosa da CNN.

Qualche mese fa accompagnavo mio padre in ambulanza e mentre chiacchieravo con l’autista, dal retro, l’infermiere ci ha interrotti dicendo di mettere la sirena e dopo poco ha chiesto di avvisare l’ospedale perché “abbiamo un 29 naca 6”. Non ho chiesto spiegazioni ma ho intuito che per mio padre era la fine della corsa. All’arrivo al pronto soccorso una dottoressa gli ha preso la mano e gli ha detto “adesso farà un lungo viaggio”: un gesto di grande umanità, quasi solenne.

Sotto alle Twin Towers davanti a milioni di spettatori increduli sono morte migliaia di persone a cui nessuno ha potuto dire altrettanto.

A Parigi in gennaio la strage al Charlie Hebdo sembrava aver superato ogni limite ma non era così. Allora era scattato "Je suis Charlie", ora le città del mondo si sono colorate col rosso, bianco e blu francese: mi hanno commosso le decine di migliaia di spettatori dello stadio londinese di Wembley che cantavano la marsigliese leggendo il testo sugli schermi. La gente normale esprime il suo sdegno e la sua incredulità di fronte al non senso, di fronte all'orrore.
E prima delle analisi, assolutamente necessarie per affrontare questi momenti di incertezza globalizzata, bisogna valorizzare le espressioni semplici che la comunità umana mette in campo per dire che le risorse per gridare la speranza ci sono, per quanto possa essere doloroso tirarle fuori. Bisogna farlo assolutamente. 

venerdì 9 ottobre 2015

44 ANNI DI MATRIMONIO

44 ANNI DI MATRIMONIO CON UNO SPAZIO DI MEMORIA DI 40

 Cena di anniversario a Vaglio 9 ottobre 2015
44 anni in fila per tre col resto di due. Pronunciando la cifra 44 non puoi evitare di evocare la canzoncina terribile dello Zecchino d'oro.
44 anni sono tanti e ancora di più per uno come me che ha una specie di amnesia progressiva per cui gradualmente il passato mi sembra di non averlo vissuto davvero ma che gli altri me lo abbiano raccontato e mi abbiano anche fornito alcune fotografie. Mi sembra davvero che quella parvenza di ricordi sia solo una costruzione mentale di elementi raccolti e sintetizzati, come i contenuti dei libri e dei film che a un certo punto si strutturano come ricordi anche se sai benissimo che non sono i tuoi. L'infanzia ad esempio non posso garantire di averla vissuta, di esserci stato: deduco di sì perché è logicamente molto probabile ma non perché ne abbia quello che tecnicamente viene definito un "ricordo". Di tutte le scuole elementari, coscientemente ho un solo ricordo: sono in uno spiazzo con una montagnetta di terra, e dalla cima faccio volare un aereo attaccato a una corda girando su me stesso, l'elica gira perché l'aereo spinto dal movimemto della corda fa pressione, è il principio al contrario del motore che muove l'elica che si avvita nell'aria e fa avanzare l'aereo. Ma in fondo anche questo ricordo che tengo stretto perché è l'unico che più o meno attesta che c'ero, mi chiedo se non potrebbe essere un  innesto come quelli di Blade Runner dove i replicanti per avere maggiore equilibrio emotivo avevano dei ricordi artificiali impiantati, i ricordi magari della nipote del programmatore. Gli davano anche qualche fotografia così ci credevano più facilmente, erano più contenti. Non dovrebbe essere la Tyrrel Corporation (che fabbricava i replicanti modello Nexus 6) che mi ha costruito ma sulla questione memoria, originale o innestata, i miei dubbi rimangono. Ed il processo di cancellazione è progressivo: questo sfata almeno l'idea di chissà quale trauma infantile rimosso, infatti il fenomeno procede e dopo l'infanzia è sparita l'adolescenza e anche l'età adulta giovanile ormai se ne è andata o quasi. Essendomi sposato a 22 anni quindi anche quel periodo ormai è annebbiato, conosco molte cose che posso raccontare magari nei dettagli ma credo perché me le hanno raccontate. Del matrimonio ho la memoria del Super8 e qualche foto ma la certezza che c'ero me la dà la Dani. Dani è la mia memoria di riserva, lei si ricorda tutto e sa tutto quindi basta che chieda a lei. Ma la struttura del ricordo personale che sento agganciato a tutto il mio vissuto, questo si diluisce piano piano. Ho ipotizzato che il fatto di non soffermarmi mai a ricordare il passato se non parlando con altri, cioè non avendo per struttura il desiderio di continuare a ricordare e rivivere il passato, probabilmente determina la mancanza di un imput importante per il mantenimento dei ricordi, ma è solo un'ipotesi che comunque non spiega questo strano processo di cancellazione progressiava.
C'è però un risvolto piacevolissimo in questa situazione sicuramente patologica della mia memoria che se ne va gradualmente: visto che dopo 44 anni di matrimonio trovo che mia moglie sia la persona più interessante che abbia mai incontrato e con cui mi piace proprio vivere, ebbene non avendo un passato di ricordi che vada oltre i 40 anni, allora la mia Dani è da sempre con me. Ed è veramente così nel senso che non ho la sensazione di aver mai vissuto senza di lei. Ed è fantastico.

venerdì 4 settembre 2015

La rete che aiuta

LA RETE CHE AIUTA

Alla giornata indetta dalla SUPSI “SOCIALMENTE: Le giornate di lavoro sociale” del 3 settembre 2015 per gli studenti di Bachelor mi è stato affidato il tema:

La rete che aiuta
Comunicazione in rete e comunicazione tradizionale


Nella comunicazione tradizionale la caratteristica determinante non è tanto il supporto, magari cartaceo, ma il rapporto che devo stabilire per ottenere quell’informazione, devo scoprire chi l’ha prodotta, dove si trovi ora, valutare la disponibilità e mettere in atto un sistema di trasmissione di quell’informazione a partire dal luogo di origine o dove risiede ora, biblioteca ad esempio, e permettere a me che posso essere anche all’altro capo del mondo, di poter accedere a quell’informazione. Magari dovrò fare un viaggio per incontrare qualcuno o procurarmi dei documenti che costituiscono l’elemento di conoscenza che sto cercando. Ciò che mi sembra definire questa modalità è la scala gerarchica che distingue nettamente chi detiene elementi di conoscienza, magari li ha creati, e chi ha bisogno di quegli elementi ma non ne dispone e deve riuscire ottenerli muovendosi in questa sorta di relazione di dipendenza.

Ciò che contraddistingue la rete rispetto alla comunicazione tradizionale è la non rilevanza dei luoghi di produzione o di deposito della conoscienza. Quando si naviga e si acquisiscono informazioni in rete si utilizza un sistema di connessioni attraverso nodi che costituiscono il sistema base di trasmissione della rete. Una informazione ci perviene a volte segmentata e proveniente da luoghi molto diversi ma al livello finale di fruizione l’informazione si presenta con caratteristiche unitarie  e coerenti che non dicono molto su dove e come questa sia stata prodotta (es torrent). In prima battuta non ci preoccupiamo mai del dato di origine, cioè del dove, come e quando si sia prodotto quell’elemento di conoscienza. Non dobbiamo quasi mai entrare neppure in relazione e tantomeno in una relazione di dipendenza con chi produce o detiene le informazioni che cerchiamo. Non c’è più un sistema gerarchico che condiziona il rapporto fra produttore di conoscenza e fruitore.
Il modello della comunicazione in rete rende partner virtuali indipendenti e paritari sia coloro che producono conoscenza sia coloro che ne usufruiscono, con la possibilità “assolutamente democratica” che anche chi fruisce possa dare un contributo costruttivo in termini di implementazione delle conoscenze originali. Wikipedia è l’esempio più evidente di questa concezione dove tutti possono contribuire alla conoscenza e al sapere disponibile per tutti.

Filantropia, autoresponsabilizzazione e Socialbusiness

La filantropia tradizionale che soprattutto su modello americano si è sviluppata nel ventesimo secolo e permane tuttora, consiste nel devolvere mezzi, generalmente pecuniari, a realtà indigenti, definite povere, dove le persone vengono sostenute con l’obiettivo di modificare lo stato di penuria di risorse per cui si è intervenuti. L’efficacia relativamente bassa di questo gigantesco dispendio di energie e risorse varie, credo sia dovuto a un errore metodologico: si separa il momento e il luogo della produzione della ricchezza dal momento e luogo della distribuzione di risorse partendo dalla constatazione di penuria di risorse. Questo modo di operare e concepire l’intervento solidale mantiene la persona indigente nella condizione di “oggetto” di attenzione da parte del filantropo che distribuisce beni, impedendo che questa si trasformi invece in “soggetto economico produttivo”. 

Si contrappone a questo modello filantropico fondato sulla penuria di risorse, un modello invece concepito a partire dalle risorse, anche minime, perché fanno diventare “soggetti” i poveri che si autoresponsabilizzano in un processo produttivo fondato piuttosto sulle capacità: il Social Business di Muhammad Yunus o il concetto di risorsa di Amartya Sen (Capability). Lo slogan che ormai da anni Caritas Ticino ripete è quindi: “I poveri possono uscire dalla loro situazione di indigenza se diventano soggetti economici produttivi”. (video attività Pollegio e Rancate)
La svolta, una scelta di campo, è nata dal concetto espresso dal vescovo Corecco nel 1992: “un uomo è più del suo bisogno”. (video CATISHOP.CH con tabellone)

Democratizzazione della rete e del modello fondato sulla disponibilità di risorse.

Mi permetto un parallelismo di natura funzionale tra la rete e il modello sociale fondato sulle risorse e sulle capacità anche dei più poveri di diventare soggetti economici produttivi. In quest’ultimo non si distingue gerarchicamente chi è ricco e chi è povero, perché il sostegno e l’aiuto di chi è ricco si limita alla creazione delle condizioni favorevoli dove la persona indigente si attiverà diventando il soggetto della sua rinascita che lo affrancherà dalla sua condizione di povertà. Non una situazione gerarchica ma paritaria fra due entità che potenzialmente producono benessere, ricchezza, attraverso le loro risorse. La prima mette la seconda nella condizione di sperimentare la propria capacità produttiva, condizione fondamentale per uscire dall’indigenza. Nella rete è un po' la stessa situazione "democratica" in quanto diventano
partner virtuali indipendenti e paritari sia coloro che producono conoscenza sia coloro che ne usufruiscono.

 Video "Muhammad Yunus"

 video di Caritas Ticino

English version of the video

mercoledì 29 luglio 2015

Mila Song

Fare musica per "Una Scienza Malinconica" "Attorno alla Clinica della Precarietà"

Buon compleanno? A me? A me! (proprio oggi e come si fa a non scrivere un post in questa occasione!)

Sto cercando la strada per creare il pezzo musicale per la nuova serie video sull'economia e penso al violoncello elettrico con Wah Wah, un po' di Vichitra Veena (quella con il suono slide) e percussioni tipo Hang con un sottoprodotto  (il Garrahand). Vedremo. Alcune immagini virtuali dell'ambientazione.

(Nel frattempo il pezzo è finito: ascolta Economia Malinconica)(E anche la serie video "Una Scienza Malinconica" è partita: prima puntata)
Fare musica è un'esperienza creativa straordinaria indipendentemente dal fatto che uno sia uno strimpellatore e sperimentatore di suoni strani come me o un vero musicista come gli altri della lista SUISA. Insomma costruire suoni o vibrazioni musicali e lavorarci fino ad avere qualcosa che magari poi piace solo a te, è straordinario.
Non ho mai scritto su questo blog dell'esperienza che due anni fa ho fatto nella creazione della sigla per la serie TV "Attorno alla clinica della precarietà" partendo dai gorgheggi di mia nipote Mila quando aveva un anno (ora ne ha tre).
Ho avuto una registrazione da Iphone di Mila che canterellava un ritornello di chissa quale canzoncina cantatale da mamma o papà, oppure improvvisazioni spontanee. Ho preso questa base di poche note
e l'ho riprodotta con vari strumenti, in parte acustici e in parte elettronici, mantenendo la base cantata. Siccome la serie video in cui è utilizzata tratta del disagio e della precarietà, l'atmosfera è poco allegra e può lasciare sorpresi che il canto di una bimba di un anno crei un clima un tantino angosciante, ma credo si adatti bene all'ambientazione virtuale surrealista in cui si trova il protagonista, lo psichiatra e psicoanalista Graziano Martignoni, per 12 puntate. Ecco il link della prima puntata di "Attorno alla clinica della precarietà".
http://www.caritas-ticino.ch/media/rubriche/rubrica_attorno_clinica_precarieta.htm
Ed ecco il pezzo musicale "Mila Song". Comunque se dovessi stampare un CD con questa musica la copertina sarebbe questa foto di Mila a un anno, fatta dalla mamma Nora.
http://cativideo.dyndns.org/cati/altro/milasong.mp3


mercoledì 8 luglio 2015

SCHIAVITÙ moderna, un affare da 150 miliardi di dollari



SCHIAVITÙ moderna, un affare da 150 miliardi di dollari.


Stime da 20 a 36 milioni di persone.

(editoriale della rivista CARITAS TICINO luglio 2015)
http://www.caritas-ticino.ch/media/rivista/archivio/riv_1502/riv_2015_R2_index.html

http://www.caritas-ticino.ch/media/rivista/archivio/riv_1502/Noris_Roby_editoriale_R2_2015.pdf




A ricordarlo è Mira Sorvino, attrice hollywoodiana, protagonista nel 2005 del film Human Trafficking (rivista no 2 luglio 2007 e rivista no 4 dicembre 2011),
diventata ambasciatrice dell’ONU per la lotta alla schiavitù, traffico di esseri umani, in un servizio (scritto e video) della CNN, del 24 giugno 2015 
che fa rabbrividire riportando alla ribalta il dramma del traffico di esseri umani, schiavi moderni, che tocca un numero impressionante di paesi, dall’India alle Filippine, dalla Thailandia al Brasile, dal Nord Corea alla Somalia. Le stime variano da 20 a 36 milioni di persone.
E negli stessi giorni mi è capitato di vedere uno stralcio di un documentario francese sulla prostituzione infantile in Madagascar, che in sintesi diceva: la povertà e la mancanza di prospettive fanno sì che solo i turisti bianchi siano la fonte di sussistenza, la prostituzione è quindi per molte bambine l’unica forma di sopravvivenza. Tutti lo sanno, dai politici alla polizia, agli organismi sociali, tutti deplorano ma non c’è niente da fare.
Mi colpisce sempre questa tragedia umana moderna, che sembra normale, ineluttabile, cioè “non c’è niente da fare”, e mi chiedo se la storia un giorno non si chiederà perché questo sia avvenuto sotto gli occhi di tutti. Come lo sterminio di milioni di ebrei, di dissidenti e di “diversi”, operato dai nazisti sotto gli occhi di tutti. 


Mira Sorvino mi è particolarmente simpatica perché sfrutta la sua notorietà come elemento positivo per veicolare azioni, giudizi e iniziative contro il traffico di esseri umani. Una lotta impari che, prima di avere i limiti imposti dai pochi mezzi di fronte all’immensità del fenomeno, deve fare i conti con la mancanza dei riflettori mediatici accesi a pieno regime. In altri termini la nostra generale indifferenza; ma perché il traffico di esseri umani non ha mai le prime pagine? Un po’ come succede col tema della fame nel mondo: si sa che c’è ma poiché si pensano cose diverse sui mezzi per farla sparire allora non succede granché (vedi articolo a pag 12). Siccome non possiamo piangere continuamente sulle stesse tragedie, pena l’assuefazione e poi l’indifferenza, i media si adoperano per cambiare periodicamente il programma dei drammi umani da mettere sotto i riflettori. Ecco allora che uno Tsunami con migliaia di turisti occidentali coinvolti diventa un affare colossale che dura mesi: senza turisti occidentali non sarebbe stato nelle headline delle TV mondiali per più di tre giorni.
Ancora per un po’, avremo i riflettori sui migranti del mare (vedi art. pag.10), perché il Mediterraneo è vicino, perché i profughi interrogano l’Europa intera e Brussels non sa che pesci pigliare, l’Italia fa un po’ di spettacolo politico, ma alla fine si cita Gaddafi che gestiva arrivi e partenze dei potenziali migranti africani, e adesso che non c’è più è il caos totale. E voglio ricordare anche i “Perseguitati dell’ISIS” che ormai sono mediaticamente inesistenti, ma che a milioni sono ancora tutti lì nei campi profughi. Ma non fanno più notizia e quindi non se ne parla più. I meccanismi della comunicazione di massa funzionano così anche se ci sono milioni di persone attente e attive per costruire un mondo migliore e molti lottano strenuamente contro il traffico di esseri umani. 

E come sempre è una questione di pensiero. 

È appena uscito il film “Woman in gold” con Helen Mirren, magnifica interprete di una ebrea scampata all’Olocausto che lotta perché l’Austria riconosca che il famoso quadro di Klimt (titolo del film) è stato sottratto dai nazisti alla sua famiglia. Interessante nella tesi del film è la forza devastante del politically correct, cioè che un quadro del valore di centinaia di milioni possa spostare la verità dei fatti - cioè il quadro di Klimt apparteneva a una famiglia ebrea di Vienna a cui è stato confiscato dai nazisti - su un piano politico di relazioni internazionali. Solo la caparbietà di un giovane avvocato di origine ebree, nipote del compositore Schoenberg, riuscirà a rimettere la verità al suo posto. Non è solo un film, è storia, quindi a volte l’happy end c’è anche nella realtà.