martedì 14 dicembre 2021

Incontro di Caritas Ticino 13.12.2021

Riflessioni sulla morte, sul pensiero sociale e sul Natale


Il 13 dicembre 2021 Caritas Ticino ha organizzato un incontro per i suoi operatori per ricordare in particolare le numerose persone vicine all'organizzazione, morte in questi due anni di pandemia, diverse a causa del covid: principalmente famigliari degli operatori ma anche una giovane collaboratrice e un sacerdote, vicepresidente. È stata anche l'occasione per salutare una collaboratrice che va in pensione dopo 24 anni di attività e per lo scambio di auguri natalizi.
Ho proposto alla fine della Messa alcune riflessioni sulla morte, sul pensiero sociale e sul Natale. Eccole.

Vorrei condividere con voi tre pensieri relativi ai tre motivi per i quali ci ritroviamo stasera.

Il primo è ricordare molte persone che ci hanno lasciato prematuramente, il secondo è un saluto e un’espressione di gratitudine a Mara per il suo tempo dato a Caritas Ticino, e il terzo è la vicinanza a Natale.

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Troppe persone sono morte, troppe persone care. Don Giuseppe e Laura li abbiamo conosciuti, gli altri no, sono famigliari dei nostri colleghi, dei nostri amici. Non siamo attrezzati per affrontare la morte, credenti e non credenti. Non siamo attrezzati nel senso che siamo sempre comunque sconcertati e costretti, quasi da soli, a trovare la strada personale, per convivere con quel sofferto percorso di lutto, affrontando il dramma della finitezza.

Da anni mi ritrovo a riflettere sul tema della finitezza e della morte. E oso dire che questa riflessione ha fatto emergere piano piano una convinzione che posso provare a esprimere: la morte di persone care può essere un’occasione straordinaria per essere interrogati sulla propria finitezza, sulla propria morte, ma in fondo sul senso stesso della propria esistenza. Quando riusciamo a elaborare il lutto in questo senso l’orizzonte si apre e possiamo trovare occasioni di profonda e intima riflessione sui nostri interrogativi esistenziali.

Posso in poche parole raccontare quello che ho vissuto io accompagnando i miei anziani genitori alla morte e cosa è emerso da alcune osservazioni.

Ho partecipato alla corsa in ambulanza di mio padre, la sua ultima corsa. Arrivati in ospedale è apparso chiaro che non c’era più nulla da fare e non valeva la pena tentare la rianimazione di mio padre. Una dottoressa l’ha guardato e gli ha detto: “ signor Noris lei sta per fare un lungo viaggio”. Era l’estate del 2001. Qualche mese dopo le torri gemelle crollavano a New York. Scrivevo che le 2700 persone sotto le macerie delle Twin Towers non avevano avuto la possibilità che qualcuno gli dicesse quello che qualche mese prima era stato detto a mio padre.

Ma solo dopo qualche anno ho capito che quella frase mi aveva toccato così profondamente perché era l’espressione di un mio desiderio: quello di essere accompagnato, il desiderio che qualcuno mi dicesse “stai per fare un lungo viaggio”. Si tratta quindi del mio desiderio di avere qualcuno che quando morirò possa dirmi questa frase, ma anche ora in fondo desidero di non essere solo, desidero essere accompagnato da qualcuno che mi indichi la strada e mi dica la verità su me stesso.

Qualche anno dopo ho accompagnato mia madre che si è spenta in ospedale alle 3 del mattino. Statisticamente pare che molti anziani muoiano a quell’ora. Si trattava di una persona non serena, una personalità complessa. Uscendo a quell’ora nel parcheggio deserto, un’atmosfera lunare, faceva freddo, ho scritto ai famigliari: “ha avuto risposta al suo anelito di infinito”. Anche qui piano piano ho capito che a desiderare di avere una risposta all’anelito di infinito, ero io. Io ho il desiderio di avere risposta al mio anelito di infinito.

Tutto questo per dire che col tempo, se si riesce a fare quello che si può definire un lutto “sano” della dipartita delle persone care, a volte, si può trarne delle indicazioni e capire che noi abbiamo un grande bisogno di mettere a tema la finitezza, il limite, la morte.

Per cui questo periodo di grande sofferenza per molti di voi, e per Caritas Ticino che è stata attraversata da qualcosa di “fuori scala”, credo possa anche diventare l’occasione per un lavoro personale di riflessione profonda.

 2 

Un quarto di secolo di vita dato a un’organizzazione come Caritas Ticino. Non si può che essere grati, la gratitudine è doverosa nei confronti di Mara, in particolare per me che ho colto a più riprese, anno dopo anno, la sua passione, la sua grinta e anche l’offerta della sua preziosa amicizia.

Ma in fondo ogni ditta ringrazia i suoi collaboratori per il loro contributo allo sviluppo dell’azienda. Mi sono chiesto allora cosa ci sia di particolare nell’aver lavorato per un quarto di secolo per una organizzazione come Caritas Ticino. La risposta sembrerebbe essere relativa a tutto ciò che si è realizzato, ai progetti, alle sfide affrontate, a ciò che concretamente si può misurare. Ma sono arrivato alla conclusione che ciò per cui bisogna essere grati, oggi a Mara, e a tutti quelli che danno tanti anni della loro vita a Caritas Ticino, sta nel contributo alla realizzazione di un pensiero.

Il pensiero di Caritas Ticino in sintesi lo vediamo passando davanti al Catishop di Pregassona guardando la facciata con quella frase del vescovo Eugenio Corecco che trent’anni fa’, in occasione del cinquantesimo, ci ha lasciato come eredità: la traccia per cambiare la faccia di un’organizzazione caritativa che lavorava partendo dal bisogno, facendola diventare un’organizzazione che parte dalle risorse delle persone. È un cambiamento incredibile ed è una questione di pensiero: se Caritas Ticino riesce a realizzare dei progetti dove le persone sono valorizzate per quello che hanno e non per quello che gli manca, è perché c’è gente che contribuisce alla realizzazione di questo pensiero magari non sapendolo perché è difficile tutti i giorni averne coscienza. Un pensiero rivoluzionario, un cambiamento epocale.

Quindi il mio personale ringraziamento a Mara si fonda sulla certezza che in questo quarto di secolo lei ha contribuito alla realizzazione di un pensiero che può cambiare il volto della società. Accogliere delle persone per quello che hanno come dignità e non occupandosi di loro perché sono bisognosi, è un cambiamento epocale.

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Tra qualche giorno è Natale. Ho la profonda convinzione che Natale ancora oggi dopo 2000 anni possa essere un’occasione straordinaria per cogliere il paradosso di quella fragilità del Bambino nel presepe, che per i credenti è l’inizio della salvezza dell’umanità. Ma anche per i non credenti c’è un’opportunità interessante che è quella di accorgersi che da quella fragilità è nata una cultura cristiana. Anche se in diverse epoche, come la nostra del resto, si fa fatica a riconoscerlo, quella cultura ha dentro degli elementi straordinari di valorizzazione della dignità delle persone. Ben poche culture hanno avuto questa lucidità.

Anche se è difficile, il Natale ogni anno è come se ci mettesse davanti una possibilità. A noi di coglierla. Esercitando magari la responsabilità che abbiamo nei confronti delle persone che ci circondano, che a volte fanno fatica a percepire questi aspetti. E il Natale oltre alla possibilità di una nostra maturazione può diventare testimonianza di qualcosa di interessante e di importante per l’umanità. Per i credenti e per i non credenti.

  

L’elemento trasversale che unisce queste tre riflessioni, che ho cercato di condividere con voi, è la certezza che la ricchezza più grande che gli esseri umani hanno è il “pensiero”. L’augurio, non solo a Natale, è che ci aiutiamo a rendere sempre presente e vivo il fatto che questa straordinaria ricchezza deve diventare una realtà quotidiana.

Buon Natale

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