domenica 28 aprile 2019

Tra galassie e sofferenza individuale

Dall'infinitamente grande all'infinitesimamente piccolo, la questione esistenziale


Sulla nostra chat di famiglia su whatsapp Basilio ha postato questa sua foto spettacolare (vedi il suo blog astronomico



col commento: "Per riquadrare un po' il nostro ombilichismo, questo è un quadratino di cielo nella zona della catena di Markarian, in ogni cerchio rosso una galassia con tanti miliardi di stelle e pianeti quanto la nostra. Ma noi per fortuna siamo al centro di tutto...". Ho commentato così: "riuscire ad avere costante coscienza di questa "relatività" potrebbe permettere agli essere umani di vivere molto meglio relativizzando le inezie che li condizionano e li rendono infelici. Ma sono stati costruiti male e non ci riescono."



Due giorni dopo questo scambio vengo a sapere di una malattia importante a una persona a me cara, giovane e mamma, e allora fra lo sconcerto e il dolore per questa notizia mi ritrovo a riflettere sul senso della sofferenza per rapporto allo spazio e al tempo che mi appaiono quasi infiniti per lo strumentario di cui dispongo. 

Mi sono fermato a scattare questa foto di un magnifico glicine (noi non siamo mai riusciti ad averne uno fiorito!) proprio pensando a questa ragazza e in particolare a sua mamma, perché un genitore confrontato con la sofferenza di un figlio deve fare i conti con l'impotenza, può solo essere accanto.




Penso anche ad altre persone care che soffrono e tutte mi riportano alla domanda di senso sul limite, sulla sofferenza, sulla finitezza, e quindi sulla mia finitezza.

Tra l'infinitamente grande delle galassie e l'infinitesimamente piccolo degli atomi di cui siamo fatti, per la maggior parte spazio vuoto, credo si debba situare il significato di tutto ciò che esiste e ci circonda, quindi anche il senso della sofferenza, del limite, della malattia, della finitezza e della mia finitezza.


Considerata l'impossibilità ad applicare su noi stessi o sulle persone a cui vogliamo bene, un criterio razionale distaccato e quasi cinico sulla "ragionevolezza inevitabile" del limite e della finitezza perché sono ontologicamente congenite nella struttura umana, siamo disarmati. Le diverse esperienze di fede che molti esseri umani fanno possono essere di grande aiuto ma non risolvono esaustivamente la questione: "perché il limite, perché la malattia, perché la sofferenza, perché la finitezza?".

Con gli anni mi è parso che se le risposte che vorrei, nella formulazione che vorrei, non si trovano, d'altra parte è aumentata la percezione di una pista possibile per comprendere forse un po' del quadro di riferimento. Si tratta di una visione che al posto della mia singola persona ed esperienza, l'unica conosciuta e accertata da ogni singolo essere umano, pone la mia esperienza di corta durata (un secolo al massimo che nel cosmo è un'inezia) in connessione con un prima e un dopo, cioè all'interno di una storia più ampia dove anch'io ho un ruolo temporaneo e un piccolo contributo da dare. Niente di speciale in questa trovata se la applichiamo agli altri ma per poterla applicare a noi stessi trovando in questo un significato per gli aspetti a cui mi sono riferito (limite, sofferenza e finitezza), la faccenda mi pare richieda un lungo cammino di approfondimento personale. Si tratta di  uno sguardo al futuro spostato su chi ti sopravviverà, figli, nipoti, generazioni future. Sembra ovvio e scontato ma credo che ciò che può cambiare veramente è trovare pace e serenità nel ricercare il senso della propria esistenza e della propria finitezza nello sguardo di chi prenderà il testimone. 

Forse allora il senso della sofferenza di un figlio (un senso introvabile) si può spostare in una ipotesi diversa, quasi cosmica, nello sguardo di un piccolo essere, un nipote, che canalizza le tue domande legittime in una speranza che si dilata ed è come se esplodesse, dall'atomo alle galassie. Perché fra l'atomo e le galassie c'è solo una perfetta continuità dell'esperienza della perfezione e della bellezza, che molti esseri umani hanno chiamato Dio.




sabato 20 aprile 2019

Dio esiste? Potrebbe essere la domanda sbagliata

Dio esiste? Potrebbe essere la domanda sbagliata


 Polittico dell'Agnello Mistico di Hubert e Jan van Eyck, copertina pasquale della rivista Caritas Ticino

In clima pasquale, davanti al capolavoro fiammingo, provo a fare qualche riflessione impegnativa sollecitata da un'amica che il giovedì santo durante la cena "dell'agnello" ha sollevato la questione dell'essere condizionati a credere in Dio se si frequentano determinati ambienti che rendono affascinante questa idea.
Ma prima di entrare in merito una premessa personale. Per moltissimi anni, probabilmente per quasi tutta la mia vita da cattolico, ho frequentato messe domenicali che sostanzialmente non mi piacevano per la poca cura del "bello", sia nella configurazione dei gesti liturgici ma particolarmente nel canto, un aspetto a cui sono molto sensibile. Soprattutto negli ultimi anni è diventata una vera sofferenza fisica sopportare sacerdoti che urlano al microfono e fedeli che fanno lo stesso per non essere da meno, con cali di tono e stonature, attacchi sempre e totalmente scordinati. L'orrore magari accompagnato da una chitarra leggermente scordata, usata come se se si accompagnassero i canti di un bivacco. 
Ho una passione per la liturgia bizantina russa che, non avendo avuto scossoni di rinnovamento è rimasta come secoli fa con una caratteristica straordinaria: il popolo sta zitto e ascolta un coro. Credo che le più belle liturgie, della durata di diverse ore, le ho vissute a Novosibirsk in Siberia e al monastero di Chevetogne in Belgio che celebra in rito bizantino pur essendo cattolici. Si tratta di momenti dove l'affermazione che "il bello conduce a Dio" sembra tangibile con rituali di una eleganza raffinata e con canti sempre di notevole livello che alternano lunghe preghiere cantate da un diacono. 
Detto questo dopo un periodo di "decontaminazione" ho deciso con mia moglie di andare a Cademario, a mezzora di auto da casa nostra, dove 9 suore clarisse curano nei minimi dettagli la liturgia e preparano accuratamente i canti. Non sono un coro straordinario e fuori scala, ma la cura che mettono nella preparazione rende quei canti sempre molto belli. Soprattutto quelli che il popolo non può cantare e quindi rovinare. Negli ultimi mesi è stato posato un magnifico mosaico di Rupnik con un Cristo al centro che sembra guardarti in qualunque angolo della chiesa tu sia.
Andare a quelle messe è un piacere per l'occhio, l'orecchio e per il "cuore", si potrebbe dire.


Vengo ora alla sollecitazione sull'esistenza di Dio. L'amica dice in sintesi che avendo frequentato per un po' il monastero di Cademario si è resa conto che un'atmosfera bella e suggestiva alla fine ti condiziona al punto che credi di credere in Dio. Ma non sai se questo è giusto perché non sai se esiste davvero.
In altri termini traduco la questione così: alla domanda se Dio esista vorresti una risposta convincente e non un condizionamento che determini una risposta che non è tua.
Credo che ci sia un problema legato alla domanda in sé che non può avere risposta razionale, nel senso che non si può dimostrare l'esistenza di Dio né la sua non esistenza. Se ne può discutere all'infinito e studiare la questione dal profilo filosofico o teologico ma non si può avere la risposta razionale che convince. Appunto è una questione di fede. Ma cercando di riflettere in termini laici, cartesiani e non fideistici, mi viene da dire che il bisogno di trascendenza degli essere umani fa nascere questa domanda anche se è impossibile avere la risposta che si vorrebbe. 
Credo che invece la domanda si debba spostare sul piano della fiducia che viene riposta in altri che credono e testimoniano in modo convincente il loro credo. Del resto guardando persone che vivono bene, sono felici, e affermano di credere, non si può non ipotizzare che questi potrebbero avere ragione. Nella mia vita penso ad alcuni maestri che ho stimato molto, primo fra tutti il vescovo di Lugano Eugenio Corecco. Quest'uomo testimoniava una grande fede e il fatto di essere una persona straordinaria rendeva trasparente e credibile ciò che raccontava. In particolare negli ultimi anni della sua vita, ammalato, aveva reso "fatto pubblico" la sua sofferenza, la sua malattia e la sua prossima morte, e questo interrogava tutti quelli che lo incontravano, sul piano della fede. 
Allora quando incontriamo persone che apprezziamo e hanno fede queste ci condizionano nella ricerca di Dio? Ebbene sì, perché il piano della domanda sull'esistenza di Dio non può essere quello razionale ma quello della testimonianza di qualcuno in cui si possa porre la propria fiducia.
Direi che il "condizionamento" crea solo delle condizioni affinche liberamente io possa porre la mia fiducia in quella persona o in quelle persone.
Allora il consiglio che oso dare a chi è alla ricerca di Dio è quello di smettere di porre quella domanda senza risposta ma piuttosto di guardarsi intorno per capire chi sia più degno di fiducia, cioè chi crede o chi non crede. E chi è seriamente impegnato in questa ricerca ricordi il consiglio di un altro saggio, Papa Benedetto XVI: chi non ha fede viva come se ce l'avesse.  

Al monastero di Cademario durante la liturgia del venerdì santo, si è baciata la croce e quando il sacerdote stava andando a riporla, la madre superiora gli si è avvicinata per indicargli una suora anziana che non cammina a cui doveva portare la croce da baciare, cosa che ha fatto. Un gesto solenne nella semplicità più assoluta che riportava la gestualità rituale sul piano dell'attenzione a una persona con qualche difficoltà. Allora lassù in quel monastero dobbiamo chiederci se Dio esista? O piuttosto non dobbiamo chiederci nulla e stare per qualche momento accanto a una comunità di suore che testimonia la bellezza della fede con gesti di solenne normalità. 
Buona Pasqua