lunedì 29 settembre 2014

COMUNICAZIONE AMMALATA

COMUNICAZIONE: TRA EMOZIONI, ORRORI E MISTIFICAZIONI (29.9.2014)
Alcune riflessione intorno ai meccanismi di comunicazione, in particolare l'uso dell'orrore, e poi sulla difficoltà di usare la logica e il raziocinio quando i temi hanno conseguenze scottanti come l'aborto, le ho affidate a due contributi per la rivista di Caritas Ticino N.3 2014. "E SE L'ORRORE BUCA LO SCHERMO?" e "DALLA PARTE DEL TOPO" (l'editoriale) che sono collegati fra loro. 



Scioccare il pubblico, con un pugno nello stomaco, ha la sua efficacia massmediatica. Non dura a lungo l’effetto, che deve essere continuamente rinnovato altrimente si genera sempre l’assuefazione anche alle immagini più orripilanti. I telegiornali sono dei bollettini di guerra e quasi non fanno più effetto. Ma al di là della tecnica per tenere alta l’attenzione e la tensione, l’orrore funziona come veicolo di comunicazione. 

Lo sanno bene i terroristi che hanno bisogno di creare tensione e attenzione duratura. I comunicatori dell’ISIS utilizzano perfettamente questi meccanismi, perché sicuramente hanno studiato comunicazione in qualche università europea o Americana e non improvvisano per niente. Le decapitazioni di due giornalisti americani, di un operatore umanitario inglese e di una guida francese, sono state infatti usate in una precise strategia comunicativa, dilazionando a intervalli i video in rete, con annunci preventivi. E tragicamente continueranno a massacrare innocenti  fino a quando calerà l’interesse perché si comincerà ad assuefarsi anche a quell’orrore, comunicato in quella modalità.


Ma ogni tanto anche per promuovere nobili cause si casca nella trappola dell’uso di immagini raccapriccianti al fine di colpire il pubblico. Personalmente stigmatizzo questa tecnica almeno nella comunicazione attuale alle nostre latitudini, perché credo che si debba puntare sulla ricchezza dei messaggi e non sulla semplificazione emotiva. 
Ho girato la questione a un esperto di comunicazione elettronica, Lorenzo Cantoni decano della facoltà di comunicazione dell’USI.

Una comunicazione è felice se coinvolge tre livelli. Uno è quello del Logos, della riflessione che deve aiutarmi a riflettere e a comprendere meglio la realtà, è il messaggio che voglio veicolare. Ma questo messaggio ha sempre una componente di Pathos cioè di emotività. Il terzo livello è quello dell’Ethos, cioè la capacità di far sì che la comunicazione alla fine aiuti chi parla e chi ascolta a diventare migliori, e quindi ci permetta di costruire attraverso il tessuto della comunicazione una società umana più buona, più giusta, più vivibile, alla fine più felice.

Allora, in questo caso, quando il Pathos, quindi la dimensione emotiva della comunicazione, sopravanza di gran lunga la capacità di riflettere, non solo non promuove una miglior relazione interpersonale, interumana, ma addirittura può danneggiarla.
A priori è difficile sapere quale è l’equilibrio giusto, è certamente quello che noi dobbiamo cercare di fare quando comunichiamo: promuovere una crescita nel logos, nella riflessione, nella comprensione e nella verità, e una crescita nell’ethos.

Per chi come noi di Caritas Ticino, fa comunicazione elettronica, cercando di stabilire un ponte con un pubblico digitale che molto velocemente decide sulla base del primo impatto se concedere almeno un inizio di « trasmissione » o se chiuderla sul nascere con un click, la tentazione di puntare sull’emozione, sul pathos, è davvero grande. Impresa ardua puntare sul logos, sui contenuti, sul messaggio, proponendo emozioni autentiche, ma credo che proprio questo faccia la differenza su tempi lunghi, ammesso di trovare le strategie per raggiungere e rimanere in contatto col pubblico.  
Nel cinema di qualità, i grandi registi che hanno scritto la storia di questo straordinario mezzo di comunicazione, credo abbiano dovuto giostrare fra logos, pathos e ethos, riuscendo a creare emozioni forti come compendio e non a detrimento dei contenuti. Anzi probabilmente nei capolavori del cinema, le emozioni, i contenuti e il rapporto col pubblico sono fusi in un unico registro che prende forma e si modifica continuamente nelle mani del regista che modella una sorta di magma comunicativo. Penso a Stanley Kubrick, maestro insuperato, in un capolavoro come Eyes Wide Shut, il suo testamento cinematografico, dove la commozione di fronte al bello, al rapporto fra sogno e realtà, la descrizione di un universo ammalato, la mirabile maestria nell’afondo del rapporto di coppia, compongono un momento magico di comunicazione che dovrebbe essere il punto di riferimento di chi voglia sperimentare l’eqilibrio fragilissimo ma essenziale fra logos, pathos e ethos.






Penso che l’aborto sia la soppressione illecita di una vita che andrebbe difesa; lo penso a partire da una considerazione che catalogherei nella divulgazione scientifica: se un topo è un topo per tutti, scienziati e non, cominciando dal concepimento e cioè da una cellula che contiene il suo DNA e tutte le informazioni che concernono il suo essere un topo a tutti gli effetti, beh allora non ho motivo alcuno per pensare che non ci sia una precisa analogia con un essere umano.  Che poi quell’umano sarà in grado di rovinarsi l’esistenza o renderla felice, molto più di quanto possa riuscire a fare il topo, mi sembra essere irrilevante rispetto alla questione centrale di tutto il dibattito sull’aborto: quando comincia la vita di tutti gli esseri, di qualunque specie incontrabile sul nostro pianeta. Forse non è una argomentazione abbastanza nobile, non è filosofica né metafisica, ma insomma molto concreta: se quello è un topo allora quell’altro è un essere umano.

Ho letto recentemente un articolo, che consiglio vivamente*, di una antiabortista atea canadese,  Kristine Kruszelnicki direttore esecutivo di Pro-Life Humanists, che fra l’altro dice:

L’aborto è una questione emotivamente complessa,[...] ma non moralmente complessa: se i concepiti non sono esseri umani ugualmente meritevoli della nostra compassione e del nostro sostegno, non è richiesta alcuna giustificazione per l’aborto. [...] Tuttavia, se i concepiti sono esseri umani, nessuna giustificazione dell’aborto è moralmente adeguata, a meno che non si trovi una ragione per giustificare la soppressione della vita di un bambino o di qualunque essere umano in circostanze simili.

Uccideremmo un bambino di due anni il cui padre abbandona improvvisamente la madre disoccupata per alleggerire il budget della madre o evitare che il bambino cresca in povertà? Uccideremmo una bambina dell’asilo se ci fossero indicazioni del fatto che potrebbe crescere in una casa violenta? Se i concepiti sono davvero esseri umani, abbiamo il dovere morale di trovare modi misericordiosi per sostenere le donne, che non richiedano la morte di una persona per risolvere i problemi dell’altra.


Chiarito questo, dopo si può discutere sui diritti del topo e dell’essere umano ad essere difesi e non eliminati per una serie di ragioni non necessariamente connesse con la natura intrinseca a quei due esseri.  E quando una società, pur riconoscendo l’evidenza dell’inizio della vita dal suo concepimento, decidesse comunque la soppressione per ragioni ritenute prioritarie, dovrebbe avere la coerenza,  il cinismo e la crudeltà per considerare che l’eliminazione può essere operata prima o dopo la nascita. Magari dopo un periodo di valutazione delle condizioni di vita già sperimentate. Sembra uno scenario horror/fantascientifico ma è solo la conseguenza logica e coerente per rapporto alla questione iniziale sull’inizio della vita e sul dovere di proteggerla o meno.
L’ideologia e il sentimentalismo rendono difficile comunicare e dialogare su temi come questo perché, come dice Lorenzo Cantoni, esperto di comunicazione, (articolo sopra) il Pathos, il livello emotivo, non dovrebbero avere il sopravvento sugli altri aspetti della comunicazione, Logos e Ethos. È meno complicato di quel che sembra. Proprio in quelle pagine non ho volutamente citato un esempio di orrore rappresentato per colpire a livello emotivo invece di privilegiare la riflessione sul significato delle cose. Nelle campagne antiabortiste, soprattuto dove, come negli USA, il Pathos mi sembra abbia nettamente il sopravvento, su twitter ad esempio,  si utilizzano a volte immagini raccapriccianti di feti abortiti. È  una tecnica comunicativa forse di una certa efficacia, ma sbagliata e irritante per quelli come me che preferiscono approfondire concetti elementari solidi come la natura di un topo per capire quando abbiamo cominciato ad esistere come esseri umani.



* Kristine Kruszelnicki
Versione originale inglese da Aleteia Pro-LifeAtheist Presents a Powerful Secular Case Against Abortion